di Benedetto Puccia
Illustrazione di Thomas Borrely
Qual è il legame tra shopping e musica? No, in questo caso non ci si riferisce alla cosiddetta “musica commerciale”, ma a un segmento ben preciso dell’industria musicale: la sincronizzazione. A fare luce su questo tema, spesso sconosciuto al grande pubblico, è Matilde Ferrari in arte PLASTICA, musicista, sound designer, dj e producer per Sugar Music. Partendo dal suo ultimo progetto “40ena Beats”, realizzato durante il primo lockdown, e ragionando sul valore d’acquisto di una canzone, PLASTICA ci racconta il settore del sync, parlando dei rapporti tra artisti e brand e del lavoro dietro la soundtrack di una pubblicità o, come accadde sempre più spesso, di un videogioco.
Ciao Matilde! Evitando le battute tra il tuo nome d’arte e l’inquinamento, chi è PLASTICA?
Ciao! Il nome PLASTICA, in verità, non ha direttamente a che fare con la questione dell’inquinamento, anche se ammetto che mi sta molto a cuore. Ho scelto qualche anno fa questo nome d’arte perché mi rappresentava a pieno: mi piace l’idea di materiale “plastico”, malleabile, indefinito e trasformabile poi in qualsiasi cosa, adatta per lo più a qualsiasi funzione (confezioni, oggetti, accessori, protesi, componenti). È un concetto che mi rappresenta, e forse rappresenta moltissimi artisti e persone, a livello creativo, ma anche di identità. Da quando mi sono avvicinata alla musica e ho iniziato pian piano ad inserirmi in questo mondo mi sono modificata infinite volte (tanto più a Milano, dove vivo da circa sei anni) e ora non riesco comunque ad identificarmi in un’unica “personalità artistica”. In parallelo, mi affascina il concetto più ampio di “neuroplasticità”, ovvero la capacità del nostro cervello di modificare nel corso del tempo la propria struttura fisica in base all’esperienza: le connessioni tra i nostri neuroni sono in continua evoluzione. Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, sono una producer, sound designer, musicista, dj e graphic designer e ognuna di queste professioni mi rappresenta e cerca di supportare e completare le altre.
Come hai vissuto e stai vivendo questo lunghissimo periodo di pandemia? Nel primo lockdown hai realizzato il progetto “40ena Beats”, che personalmente ho adorato. Ti va di raccontarci un po’ come è nato e quali sono stati i risultati?
Ho vissuto gran parte dei periodi più “limitanti” dell’ultimo macro-periodo a casa dei miei genitori, nelle campagne veronesi, ovviamente trasferendo tutti i miei strumenti in cameretta. Qui la “noia” mi ha portata a realizzare il progetto “40ena Beats”. In un primo momento, nel quale non si sapeva bene che svolta avrebbe preso la situazione, tanto più a livello di uscite discografiche ed eventi musicali, ho fatto la cosa più semplice di tutte: mi sono guardata intorno e ho creato qualcosa partendo da ciò che avevo nella mia stanza. Ho combinato la mia passione per il giradischi con il beatmaking, ispirandomi al processo molto noto del sampling, nato già con il primo rap degli anni ’80-’90 e molto diffuso tutt’oggi, soprattutto in ambito del hip-hop e della lo-fi. Ogni giorno ascoltavo un disco, qualcuno mio (Battiato, Battisti, Dalla, Kraftwerk) e qualcuno dei miei genitori, ne registravo un breve campione o loop e da quello partivo per costruire un nuovo beat con nuove caratteristiche, mi registravo e mi pubblicavo su Instagram. Vedendo che questo mio “passatempo” stava trovando molti riscontri positivi, ho deciso di rifinire queste brevi creazioni per riunirle in una compilation su SoundCloud. Il progetto è stato notato poco dopo da Raffaele Costantino di Musical Box (Rai Radio 2) ed ha guadagnato un proprio spazio nel palinsesto della trasmissione ad aprile.
Il tema del momento su Talassa è Shopping. Mi piacerebbe esplorarlo con te dal punto di vista musicale. Che rapporto hai con l’acquisto della musica? Soprattutto considerando le differenze tra acquisto fisico e digitale.
Come accennavo prima, ho una piccola collezione di dischi in vinile, in parte ereditata e in parte frutto della mia passione per il digging, ovvero l’attività di “spulciare” tra le casse di dischi nei mercatini e negozi dell’usato. Oltre a questa modalità di acquisto abbastanza old school, personalmente utilizzo tantissimo Spotify e ho sempre pensato che fosse una finestra incredibilmente infinita e ultra-accessibile sul mondo, ancor più se a prezzi così bassi. Il problema di Spotify è noto a noi artisti, che guadagniamo meno di un centesimo per stream, ma questo è un altro discorso. Personalmente cerco di supportare concretamente la musica di artisti che mi piacciono e con cui ho rapporti di conoscenza e amicizia, acquistando ad esempio la loro musica su Bandcamp, che invece tassa soltanto il 15-10% sul prezzo di acquisto vero e proprio. Mi piacerebbe comprare tutta la musica che ascolto su iTunes o Bandcamp, ma credo che il mio frigo rimarrebbe vuoto per un po’ di mesi. Anche Soundcloud sta diventando un posto davvero interessante, ha iniziato ad esserlo all’estero già qualche anno fa e ora sta funzionando molto bene come piattaforma di ascolto alternativa, sicuramente più accessibile e veloce di Spotify per gli artisti indipendenti. In generale, spero che si possa ritornare di tanto in tanto ad apprezzare lo shopping “dal vivo” e che le canzoni non rimangano limitate alla loro forma digitale, com’è stato (forzatamente) nell’ultimo periodo, anche se ormai con Amazon e piattaforme simili tutto è possibile. Personalmente, l’acquisto fisico di un disco “vero” mi fa stare bene.
Da marzo 2020 Bandcamp ha ideato il Bandcamp Friday: ogni primo venerdì del mese la piattaforma rinuncia alla propria percentuale sulle vendite e dà tutto agli artisti, alle artiste e alle etichette discografiche. Essendo Bandcamp incentrato sull’acquisto della musica e non sullo streaming ad abbonamenti, come e quanto pensi questa iniziativa stia influendo sulla fruizione musicale?
Credo che ultimamente, anche per merito della situazione che stiamo vivendo, stiamo pian piano riuscendo, per certi versi, a concederci il valore che ci meritiamo. Il concetto di solidarietà, centro di questa iniziativa di Bandcamp, ha assunto grande importanza in questi mesi, e d’altra parte l’artista ha in molti casi costruito una consapevolezza legata al suo valore artistico. La somma di questi fenomeni ha aiutato a non sottovalutarci e a non sottovalutare il lavoro e la creatività degli artisti. Ho visto Bandcamp prendere piede negli ultimi mesi (all’interno della sfera indipendente), proprio per questo motivo. Non mancano devoluzioni e iniziative benefiche, che sulle piattaforme di streaming non potrebbero esistere, perlomeno non con questa modalità “diretta”. Personalmente ho partecipato a iniziative di questo tipo prima con Remote Rhythm Lab, in collaborazione con Reform Radio, che ha donato il 100% dei guadagni a NAACP Legal Defense Fund (studio legale americano che combatte per la giustizia razziale) e poi recentemente con It’s Ok To Leave 2020, in collaborazione con Burro Studio, in cui gli introiti sono donati in beneficenza allo spazio culturale CAP10100 di Torino.
Nel corso del 2020 abbiamo visto numerose – giustissime – proteste per riconoscere e valorizzare il lavoro all’interno dell’industria musicale. Com’è la situazione dal tuo punto di vista? Cosa manca e cosa invece è cambiato negli ultimi tempi?
Come accennavo prima, credo sia cambiato radicalmente il modo di concepirci come artisti e di concepire il nostro lavoro. Non che prima non lo facessimo, ma ora pretendiamo ancora di più, giustamente, che venga rispettato e considerato al pari di una qualsiasi altra occupazione. Chiunque lavori in questo settore è chiamato a svolgere un’attività in continua evoluzione e in cui vanno affrontate richieste, situazioni e problematiche ogni giorno diverse. Bisogna sempre essere disposti ad evolversi, migliorarsi e imparare qualcosa di nuovo ogni giorno. Pensiamo agli organizzatori di eventi, costretti in poco tempo a inventare e investire su modalità di lavoro e fruizione del live molto più complicate (o comunque fuori dalla comfort zone di chiunque) e di gran lunga meno redditizie del classico evento “in presenza”. Senza aprire un confronto con altre tipologie di lavoro, che sicuramente incontrano altri mille tipi di difficoltà, credo che in generale chi lavora nella musica (addetti ai lavori compresi) sia sottoposto a “sfide” giornaliere che comportano un altissimo livello di stress psicologico, e fermandomi per qualche mese, personalmente, me ne sono resa conto e cerco perciò di non sottovalutarmi, di non dare per scontate e valorizzare le mie capacità di adattamento e cambiamento. Credo che ora la sfida più grande sia quella di trasporre questo sentimento anche al di fuori di noi stessi, laddove alcuni dei nostri sacrifici non sono considerati.
Da anni lavori anche alla produzione di brani per le pubblicità di brand come Max Mara, Goldenpoint, Swarovski per Vogue Italia e tanti altri. Ci dici di più sul mondo del sync, spesso sconosciuto al grande pubblico?
Il Sync (o Sincronizzazione) è il processo per cui i brani vengono combinati con le immagini di film, spot pubblicitari, serie tv, videogiochi eccetera. Io ho cominciato sonorizzando alcuni video o cortometraggi di amici registi e videomaker, per poi conoscere tre anni fa Jonathan Emma, regista con cui lavoro ad oggi. Tramite questa collaborazione ho avuto la possibilità di confrontarmi con richieste, problematiche ed esigenze sempre diverse. Nella maggior parte dei casi produco colonne sonore “su misura”, ovvero le compongo ispirandomi al video stesso, alle richieste del cliente, al mood desiderato e molte volte ad alcuni brani di riferimento; cerco di far sì che il suono segua il ritmo e le armonie delle immagini e diventi un tutt’uno con esse. Altre (più rare) volte capita che un mio beat o un mio brano risultino adatti ad un contenuto visivo e che, con qualche piccola modifica, possano essere combinati.
Dal punto di vista lavorativo come funzionano i rapporti tra musicista e brand? C’è una prassi particolare quando devi produrre un brano che verrà usato solamente per la sincronizzazione? Solitamente tra brand e musicista c’è un accordo detto “licenza di sincronizzazione”, emessa da un eventuale editore musicale (nel mio caso, da pochi mesi a questa parte) oppure direttamente dal musicista o produttore, se indipendente. La licenza è un vero e proprio contratto, nel quale principalmente si accordano: compenso e termini di pagamento, durata della licenza (ovvero i limiti temporali entro cui il brand è autorizzato all’utilizzo del brano), tipologie di utilizzo (siti web, social network, video promozionali in-store) e limiti territoriali di utilizzo (tutto il mondo, solo in Italia, ecc.). Questo ci aiuta a tutelarci e a capire quanto può valere il nostro “prodotto” in base all’utilizzo che ne viene fatto. Ad esempio, una licenza di 10 anni sarà sicuramente diversa da una licenza di durata semestrale; un brano che andrà riprodotto in tutto il mondo sarà sicuramente utilizzato più volte rispetto allo stesso brano limitato al territorio italiano, quindi il suo valore potrebbe aumentare.
Con “sync” non si intende solo la pubblicità o le colonne sonore dei film, ma anche soundtrack per i videogiochi. Ti piacerebbe crearne una? Sarebbe bello sapere come procederesti in quel caso!
Mi piacerebbe molto! Ho seguito questa estate un corso online di due settimane di Fastweb Digital Academy curato da Davide Pensato, proprio perché sono sempre stata curiosa di capire come funzionassero quantomeno le basi di quel mondo: ho conosciuto qualche game sound designer e devo dire che questo tema mi ha sempre attratta e incuriosita. Creare una soundtrack per un videogioco dev’essere una sfida non da poco: tutto ciò che vi succede all’interno, a differenza di film e video “lineari”, è imprevedibile e improgrammabile. Ogni evento possibile è associato ad un determinato suono con caratteristiche variabili, che poi si relazionerà con quelli legati ad altri oggetti in movimento nella scena; ogni “ambiente sonoro” è di durata flessibile e può variare, ad esempio, in base al tempo di permanenza nel luogo in cui ci troviamo e all’atmosfera voluta, e così via. È un mondo infinito e affascinante, in cui tutto può succedere e tutto dev’essere associato in modo preciso e armonico. A livello tecnico, si lavora con modalità quasi totalmente diverse rispetto ai diversi software di produzione musicale “lineare” (DAW) che utilizzo di solito, utili alla fase di composizione di effetti sonori e musica. La fase successiva di programmazione, associata in parallelo ad una simulazione di gioco, è affidata di solito a software come Unreal e Unity.
In seguito al contest Follow The Wave sei entrata nel team di Sugar Music Publishing, cosa dobbiamo aspettarci da te nel futuro? Andremo a fare shopping per comprare un tuo disco?
Sto lavorando a tantissimi progetti, negli ambiti più disparati: dalla produzione di alcuni artisti ad iniziative indipendenti legate alla musica elettronica, remix, mixtape e molto altro. Sugar mi ha accolta a braccia aperte, insieme ad altri super producer freschissimi che hanno partecipato come me al contest, e sono molto contenta di poter lavorare con questa realtà su tanti fronti diversi, ma ancora non spoilero nulla! In generale, sto cercando di trovare un equilibrio tra il mio progetto artistico personale e il mio ruolo da producer e musicista, incentrato invece su progetti esterni. Credo che le due cose possano convivere alla grande e sicuramente non sarei la prima. In entrambi i casi, mi auguro e vi auguro che possiate in futuro fare shopping (fisico o digitale) per comprare un mio disco, ma in generale per comprare tanta bella musica e fare un regalo a voi stessi e a questo mondo al momento in grande difficoltà. Grazie!
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