di Alvise Danesin
illustrazione di Thomas Borrely
Gianluca Taraborelli vive a Trento, dove si occupa di giornalismo, musica, attivismo sociale e politico. Ha ideato il podcast crime Voit/Vuoto ambientato in Trentino e con lo pseudonimo di Johnny Mox ha pubblicato quattro album dal 2012 ad oggi. Così come per il podcast, anche l’ultimo lavoro dell’artista rivela un certo amor vacui, ma da una prospettiva completamente diversa: Spiritual Void dura 16 minuti e si basa su una parola soltanto – help! – ripetuta tra composizioni corali e loop vocali. Tuttavia, alla base di uno dei progetti più straordinari ideati da Johnny Mox, insieme ad Above The Tree, non c’è la fascinazione per il vuoto, ma un’esperienza decisamente travolgente. Stregoni è una band che cambia i componenti a seconda di dove si trovi a suonare, considerando che a salire sul palco con i due musicisti sono i residenti dei centri migranti.
“Help”. È questa l’unica parola che viene ripetuta nella tua ultima pubblicazione, Spiritual Void, un brano lungo 16 minuti. Come è nata l’idea di questa canzone? Da dove viene fuori questa richiesta di aiuto?
Spiritual Void è nato come un momento distinto della mia produzione. Mi sono sempre interessato al canto corale, alle sovrapposizioni e da tanto tempo desideravo realizzare una suite utilizzando solo la voce. Coincide con un periodo difficile della mia vita in cui l’unica cosa che mi faceva stare bene era camminare nel bosco. Tutta la composizione è nata in mezzo alla natura, grazie ad un’app che consente di fare i loop e con la quale ho messo insieme le melodie e le armonizzazioni. Il testo è tanto scarno quanto potente: help, la parola che nessuno riesce mai a pronunciare. Nel pezzo questa parola viene ripetuta migliaia di volte come un pattern, fino a perdersi e a risultare irriconoscibile. Il tema è il rapporto con la natura, che esprime un’architettura ed una tecnologia perfetta e spietata, e quello con gli esseri umani. Credo che help sia la parola, la scintilla che ha dato origine all’umanità. Una comunità esiste solo quando riesce ad organizzarsi e a dare una risposta forte a questa domanda di “aiuto”.
Il concetto di vuoto, marcatissimo nel brano, torna in prima linea in un altro tuo progetto: il crime podcast Voit/Vuoto. Cos’è che ti interessa del vuoto? Cosa ti ha spinto ad interessanti così a fondo a questo tema? È più un horror vacui o una fascinazione?
Il vuoto è il presupposto per il riempimento. Il vuoto è ammissione, lucidità e pulizia. A livello artistico il vuoto è fondamentale perché ti costringe ad immaginare e a misurarti con qualcosa che ancora non c’è. Se in Spiritual Void il vuoto è letteralmente spirituale, la ricerca di una condizione di un posto nuovo da cui guardare la realtà, nel podcast VOIT il vuoto è il mistero e il lato oscuro. Quando all’inizio della serie il lago artificiale viene svuotato viene rinvenuto un cadavere. Da quel momento in poi il tentativo del protagonista Vittorio è quello di riempire il Vuoto che si è creato non solo nelle indagini ma anche nella sua vita.
Mentre ascoltavo i primi minuti di Voit/Vuoto mi è tornato alla mente un altro podcast molto popolare che ascoltai qualche anno fa e che mi colpì molto per l’efficacia con cui veniva raccontato, oltre che per i temi: Veleno di Pablo Trincia. Come si crea l’atmosfera adatta per raccontare una storia come questa?
Veleno ha davvero fatto scuola. Per fare Voit, che invece è una fiction, abbiamo lavorato molto sfruttando al massimo le possibilità della sonorizzazione. Dall’utilizzo dei messaggi vocali (il medico è un vero medico, il tatuatore fa realmente il tatautore) ai suoni di ambiente: il tutto curato e musicato da Emanuele Lapiana (N.a.n.o). Non avevo mai scritto roba noir. In sé non avevo mai scritto niente seriamente. Mi sono basato sull’orecchio, su come avrei voluto “sentire” raccontare una storia del genere. Da poco l’abbiamo anche portata sul palco dal vivo e stiamo lavorando ad una nuova serie podcast che uscirà entro l’anno.
Spiritual Void porta all’estremo un’idea di sound che nella tua bio di Bandcamp definisci come uno skeletal Gospel per punks in search of redemption. Cos’è che tiene insieme questi due mondi, punk e gospel, apparentemente così distanti tra loro? Cos’è il punk e cos’è la spiritualità per Johnny Mox? Soprattutto, qual è la redenzione a cui ti riferisci?
A me piacciono cose diverse. Non so se ci sia un punto di contatto. Il punk è libertà perché ti dice che puoi essere protagonista, con la tua voce sbagliata coi tuoi suoni sbagliati, coi movimenti sbagliati con la tua faccia sbagliata. Quando lo codifichi già non funziona: lo disarmi. Il gospel invece è musica che esiste solo quando più voci si incastrano assieme, quando c’è un’interazione tra le persone. Quell’interazione produce una musica che ha una forza impressionante: riconoscere e perdere la propria voce in mezzo a quella degli altri potrebbe essere un’ottima idea di redenzione.
Prima del punk e prima del gospel c’è stato anche spazio per il rap. Come ti sei avvicinato a questo genere? Hai mai pensato di tornare a quel tipo di linguaggio musicale? Come pensi si evolverà o si sta già evolvendo il rap in Italia?
Sono un grande appassionato di Hip Hop. È stata la musica più importante quando non sapevo chi ero. Mi parlava, sembrava parlare solo a me. Oggi questa musica non mi parla più perché è eccessivamente codificata. Quanti video abbiamo visto con le stesse pose, quante rime telefonate? In Italia comunque il momento è molto interessante. Penso a Massimo Pericolo, Chadia, Madame…
Il rap è stato un linguaggio fondamentale nel tuo progetto Stregoni, band che – oltre a te e Above The Tree – cambia continuamente i propri componenti, dato che coinvolge di volta in volta persone residenti in centri migranti. Come si gestisce nel concreto un progetto del genere? Quali sono state le difficoltà più grandi da affrontare e, d’altra parte, le gioie inaspettate? Cosa ti ha lasciato Stregoni e come si evolverà il progetto?
Stregoni è un’esperienza travolgente. In tre anni abbiamo suonato con 5000 richiedenti asilo in tutta Europa. La gestione richiede…beh c’è da fare molta fatica: bisogna essere inflessibili e anche un po’ matti. Mentre non abbiamo mai avuto nessun problema coi migranti, la grande difficoltà c’è stata in un primo momento con il mondo dell’associazionismo e dell’accoglienza. Stregoni è un progetto costruito sull’accettazione del conflitto. Ho trovato spesso un atteggiamento di solidarietà un po’ stereotipato. Stregoni non è nato per “dare il microfono ai migranti” ma per fare tutto il possibile affinché siano loro a prenderselo.
In un’intervista di qualche anno fa ti si chiedeva cosa ti mancasse e la tua risposta fu “la condivisione, sentirmi parte di qualcosa, avere consapevolezza di un noi”. Pensi che con Stregoni ci sia stato un cambiamento in questo senso?
Assolutamente sì. Se penso a tutte le persone che abbiamo incontrato: da Padre Marco agli attivisti svedesi del Kontrapunkt Kollektiv, fino a Mediterranea, Open Arms, i ragazzi del Baobab. Nei prossimi anni spero di avere la forza di fare altri passi in questa direzione.
Stregoni, utilizzando la musica come sistema di integrazione, può essere considerato un progetto di protesta verso i metodi di accoglienza attuali?
Le persone quando si trovano a transitare dentro Stregoni sono valorizzate al massimo per quello che hanno da dare e da portare. Abbiamo bisogno di mettere in condizione i nuovi arrivati di partecipare alla ricchezza collettiva, di lavorare, di comprare auto usate, di comprarsi le Air Jordan, le catene d’oro, ma anche di pagare le tasse, gli affitti, di versare contributi per le pensioni. Siamo arrivati addirittura a proporre di tassare i migranti per le spese dell’accoglienza pur di scommettere su di loro. Una volta in grado di camminare con le proprie gambe perché non addebitargli i costi dei corsi di italiano? È una provocazione, ma serve a ribadire l’importanza di investire senza esitazioni sull’indipendenza dei nuovi arrivati.
Tu personalmente come vivi il concetto di protesta? Cosa significa per te “protesta” oggi? È cambiata la tua idea di “protesta” nel corso del tempo?
Sono attirato dalla protesta. Anche se non ne conosco le ragioni sono portato a solidarizzare con chi protesta. Perché? Perché la lotta e il conflitto sono vita: particolarmente in questo momento storico. Siamo alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra. Noi europei in particolare siamo nella doppia condizione di poter lasciare il segno o essere ricordati come i decadenti del Vecchio Mondo.
Se l’artista ha un occhio critico e sensibile verso ciò che lo circonda, il giornalista dovrebbe averlo in misura ancora maggiore. Come artista e giornalista (e attivista), in questo momento storico, quali sono secondo te i temi contro cui vale la pena protestare?
Il tema è uno solo. Lavoro. In occidente senza lavoro non sei nemmeno considerato un cittadino. Il lavoro si porta dietro milioni di temi che mi interessano: l’immigrazione certo, la rivoluzione tecnologica e l’automazione, il reddito universale e ovviamente tutti quei lavori di cui ancora non conosciamo l’esistenza. Chi crea realmente la ricchezza di un paese? Come viene distribuita? Gli strumenti con cui misuriamo la ricchezza sono corretti o andrebbero aggiornati?
Nei mesi scorsi abbiamo visto scontri violenti tra il movimento Black Lives Matter e i vari governi. In un tuo post di giugno ti chiedi appunto “Cosa significa fare la cosa giusta”. Esiste, secondo te, un modo corretto di protestare?
È un percorso, per gli Stati Uniti è un momento doloroso segnato da quella che molti chiamano senza mezzi termini guerra civile. Fare la cosa giusta può voler dire incendiare la città? Buttare giù una statua? Certo che sì. È già successo e succederà ancora. Fare la cosa Giusta vuol dire anche riportare la pace all’interno della propria comunità. Il problema però si pone il giorno seguente. Cosa succede il giorno dopo che la città è stata messa a ferro e fuoco? Come ci si riorganizza? Io penso che le tante proteste siano legittime, ma è quando le proteste riescono a cambiare la cornice del dibattito, della convivenza politica, che trovano la loro legittimazione. Quando la guerra è vinta. Pandemia e emergenza ambientale ci stanno dicendo che è il momento di cambiare la cornice in cui agiamo.
La musica e il giornalismo possono essere strumenti efficaci di protesta o, come dici in un’intervista, sono solo “lo specchio di quello che succede”?
Sono solo lo specchio di quello che succede, per fortuna. Ma quante decisioni tutti noi prendiamo ogni mattina davanti allo specchio?