di Gabriele Naddeo
illustrazione di Thomas Borrely
Londra è la nuova capitale del jazz. Una capitale giovane e multietnica che non si piega all’idea di Brexit e chiusura delle frontiere, ma trova la sua identità nell’idea di contaminazione, tanto sonora quanto musicale. Non a caso, la nuova, celebratissima, scena jazz londinese è nata nei club, grazie a serate di musica live dove musicisti si alternavano con serenità a rapper e dj set. Tuttavia, è possibile che non avremmo sentito parlare della nuova scena jazz di Londra senza l’intervento accorto di alcune associazioni ed etichette, che hanno saputo come trasformare un fenomeno spontaneo in un progetto più strutturato. È allora anche grazie ad artisti giovani e straordinari, come Shabaka Hutchings e Nubya Garcia, che a realtà come Tomorrow’s Warriors e la Bronwswood Records, se nel 2020 si parla di jazz come di un genere popolare e cool. Ma quand’è che precisamente il jazz è tornato ad essere materia pop? Che c’entra l’hip hop in tutto questo? Ne parliamo, per restare in tema di giovani talenti, con Giulio Pecci, che ha pubblicato un bellissimo articolo sul Tascabile dedicato al jazz londinese.
Partiamo dal Ritratto di gruppo della nuova scena jazz londinese che hai scritto per il Tascabile. Com’è nata l’idea dell’articolo? Perché hai voluto approfondire questo tema in particolare?
Il primo incontro “consapevole” con la scena è stato forse l’album “Black Focus” dell’ormai sciolto duo Yussef Kamaal; da lì ho iniziato ad intuire la presenza di un movimento che non conoscevo. Quando ho iniziato ad esplorarlo sono stato letteralmente travolto da una quantità incredibile di materiale, a volte con poche centinaia di ascolti sulle piattaforme di streaming, ma comunque di grande qualità.
Iniziando a riconoscere un suono, e soprattutto un ritmo, comune alla maggior parte di questi artisti (e una rete di professionisti del settore che va oltre i musicisti stessi) ho iniziato a tracciare un percorso che oltrepassa la musica pur rimanendovi sempre ancorato; da lì quindi l’esplorazione dell’eredità culturale coloniale, del tessuto socio-economico londinese e tanto altro ancora. È stato un articolo molto complesso che mi ha cambiato professionalmente e forse umanamente, consumandomi per mesi. Mi ha comunque fornito alcune certezze e una spinta in avanti verso gli argomenti che, già lo erano, ma oggi sono veramente e più consciamente il mio pane quotidiano. Il ringraziamento per la fiducia concessami nel trattare l’argomento esattamente nel modo in cui volevo farlo va tutto all’eccezionale redazione de Il Tascabile.
In che momento, secondo te, il jazz è tornato a far parlare di sé come argomento mainstream? Nel 2014 c’è stata la “rinascita”, un po’ in sordina tra l’altro, della mitica Impulse!, poi nel 2015 sono usciti “To Pimp A Butterfly” di Kendrick Lamar e “The Epic” di Kamasi Washington: è qui che il jazz è tornato ad essere materia pop?
Premessa: mi trovo a parlare di un tema che ha una storia veramente infinita, e io dal mio canto ho 24 anni compiuti da poco. Questo solo per dire che non ho la presunzione di avere risposte a domande ormai secolari, e che bisogna procedere con i piedi di piombo al riguardo, dato che i musicisti – soprattutto in Italia – sono molto sensibili su questo argomento. Detto questo, dal punto di vista della mia storia personale il momento in cui ho sentito come sentimento comune che il jazz fosse “tornato nel mainstream” – ovvero: che puoi andare ad ascoltare jazz al club con gli amici senza vivere la cosa come una sorta di esperienza elitaria o “da vecchi” – è stato proprio il 2015. Il concerto di Kamasi Washington al Monk di Roma nel 2015 è stato, per me e per tutti quelli che c’erano, un punto di non ritorno. Sono stato a decine di concerti al Monk e prima di quello a moltissimi concerti jazz in generale, e non ricordo tante persone come a quel concerto di Kamasi. Il locale era strapieno e non mi sembra una cosa scontata.
Per l’occasione del quinto anniversario di TPAB, hai scritto un altro articolo per il Tascabile, approfondendo il connubio tra rap e jazz. Partito da J Dilla, sei arrivato ai giorni nostri, citando anche figure fondamentali della black culture come Toni Morrison e Ta-Nehisi Coates. Secondo te quali artisti stanno raccogliendo oggi l’eredità musicale e culturale di TPAB e come si sta evolvendo il discorso?
È una domanda difficilissima che non può avere una risposta univoca. Quel disco è un capolavoro, in esso sono magicamente confluiti decenni di musica afroamericana e non solo, trovando un equilibrio tanto musicale quanto narrativo che è assolutamente incredibile. Lo dice anche Kendrick poi in “DAMN”, nel pezzo ELEMENT: “Last LP I tried to lift the black artists; But it’s a difference between black artists and wack artists”. Come a dire che lo sforzo che ha fatto lui in quel lavoro non lo ha visto ripreso da nessun altro, ed è pure normale, quasi giusto. Poi ci sono ovviamente tantissimi artisti validi e super interessanti ma nessuno si è avvicinato neanche lontanamente a confezionare un lp di quella portata; la cosa assurda di quel disco è che se ne percepiva la caratura immediatamente, non c’è stato quasi nessun dubbio che fossimo davanti ad un capolavoro. E più lo abbiamo continuato a sentire, più quella convinzione si è rinsaldata.
Se parliamo invece da un punto di vista prevalentemente musicale, ci sono due artisti (uno inglese e una zambiana naturalizzata australiana) che amo alla follia e che secondo me seppur con le debite proporzioni possono essere accostati al Kendrick di TPAB. Tanto per l’uso della strumentazione e la tipologia di ricerca musicale, quanto per un fil rouge “conscious” nel messaggio che vogliono trasmettere: Kojey Radical e Sampa the Great.
Nell’articolo sulla scena jazz londinese viene fuori un tema che mi interessa particolarmente, ovvero il ruolo che hanno i luoghi geografici, oltre ai dischi, nell’influenzare un determinato tipo di suono e nel creare una specifica scena musicale. Che ruolo ha avuto, nel concreto, la città di Londra nel formare la sua scena jazz contemporanea? Quanto il suo essere metropoli ha inciso al riguardo?
Quell’articolo – in cui sono confluiti due viaggi, decine di interviste, incluso le due principali agli organizzatori di Tomorrow’s Warrior – nasce in gran parte dalla passione che provo per quella città. Londra è una metropoli molto complessa, diversissima rispetto al resto d’Inghilterra (basta vedere i dati dei voti per il referendum della Brexit) e il suo ruolo nella formazione di questa nuova scena jazz è stato senza dubbio centrale. Dal 2000, diverse organizzazioni pubbliche e private hanno investito molto in musica e cultura, dando la possibilità di frequentare istituzioni importanti anche a chi non poteva permetterselo a livello economico e puntando molto su minoranze e londinesi di seconda e terza generazione.
A questo proposito, ci tengo a precisare che non è stato assolutamente un atto “umanitario”, un’opera di bene. È soprattutto un’operazione molto pratica, legata alla specificità della città. Nel senso: Londra è costituita per la maggior parte da immigrati di prima, seconda o terza generazione. Ignorare questa fetta della popolazione così grande equivale a perdere una risorsa (economica) fondamentale e gli inglesi in quanto a furbizia economica e capitalismo avanzato non sono veramente secondi a nessuno. La scena jazz di Londra è quindi anche figlia di scelte politiche molto concrete. Poi, diversamente da quanto spesso accade nella vita reale, questa scena e la comunità che le si è creata intorno è stata in grado di realizzare quel ruolo che assegniamo idealmente alle metropoli, ovvero far incontrare culture diverse, farle comunicare tra loro e arrivare a una sintesi che riesce a rispecchiare le sue parti. La scena jazz londinese è in questo senso l’utopia in veste musicale dell’idea stessa che abbiamo di metropoli – purtroppo un concetto che nasce sempre legato all’agonizzante sistema libertario e capitalistico.
Tra l’altro, anche le label hanno avuto un ruolo centrale in questo processo, no?
Assolutamente. Probabilmente non avremmo mai sentito parlare di una scena inglese senza una serie di persone, label e organizzazioni che hanno avuto un’idea molto precisa su come trasformare un fenomeno partito in modo spontaneo, tra jam e serate, in qualcosa di più strutturato e organizzato, soprattutto dal punto di vista economico. La Brownswood di Gilles Peterson, ha avuto un ruolo fondamentale. Partita da semplice etichetta, si è man mano allargata, dando vita a una serie di festival e progetti di talent scouting. È Il caso di Future Bubblers, la divisione della Brownswood dedita a scovare e coltivare giovani talenti, che funziona un po’ come la Primavera di una squadra di calcio. Tramite Future Bubblers, l’etichetta seleziona artisti emergenti e gli permette di vivere già da giovanissimi delle esperienze molto formative dal punto di vista della carriera, tra interviste su canali importanti, tour e serate di un certo livello. Tradotto: prova a coltivare passo dopo passo quelli che saranno i futuri artisti scritturati dalla Brownswood.
Naturalmente, la cosa che secondo me vale la pena sottolineare è che al netto dei lati economici fin qui citati, il puro fenomeno della nuova scena jazz londinese (nel suono e nell’attitudine associativa) non è stato “creato a tavolino”. Tutto parte sempre dagli artisti, dalla musica e dalla creazione quasi spontanea di un’identità che via via è diventata sempre più riconoscibile: un sound che è frutto dell’incrocio tra jazz, afrobeat, elettronica, grime e hip hop. Il merito in questo senso è anche di chi ha saputo dare vita a una serie di concerti dal vivo dove si è lasciato ampio spazio alla contaminazione – penso alle serate Jazz:Re:Freshed. È un suono nato nei club dove nell’arco della stessa serata si alternavano in modo molto naturale dj, musicisti jazz e rapper.
È possibile secondo te fare un paragone con l’Italia? Pensi che un fenomeno e un sound simili potrebbero prendere piede in una città come Roma?
Secondo me è molto difficile fare un paragone con l’Italia, perché in questo caso stiamo parlando di un’esperienza molto legata alla natura e alla storia di Londra, storia che per esempio affonda le sue radici nel colonialismo. Il sound della scena jazz londinese è frutto di un mix di culture che vanno ben oltre i confini dell’isola britannica. Penso alla cultura americana, caraibica, nigeriana e africana in genere. In questo senso, c’è un materiale umano, innanzitutto, e storico da cui appunto si poi sviluppato tutto. In Italia, al di là della totale o quasi assenza di interesse delle istituzioni – confermata anche dal fatto che nel nostro Paese la musica a scuola non si studia – non so se ci sia una scena che a livello di impatto jazz possa svilupparsi con quella stessa forza. L’esperienza londinese può essere d’ispirazione, ma è un’esperienza molto molto diversa dalla nostra. Questo ovviamente non significa che in Italia non ci sono fenomeni interessanti dal punto di vista musicale. Per esempio, ti direi che l’esperienza nostrana più simile alla nuova scena jazz londinese – per qualità del sound, capacità di mescolare tradizione e innovazione – è sicuramente la scena elettronica “global” italiana: Populous, Clap! Clap!, Machweo, Lorenzo BITW, il “veterano” Dj Khalab eccetera.
Chissà se allora come per We Out Here avrebbe senso pensare a un’uscita discografica collettiva e presentare questa scena italiana in un ritratto d’insieme. Anche come nel caso della Blue Note Records che quest’anno ha messo ancora più in risalto la scena londinese con “Blue Note Re:imagined”, in cui artisti britannici rivisitano in chiave moderna una serie di classici dell’etichetta…
Non so se sia fattibile, parlando con diversi di loro ognuno ci tiene a sottolineare i differenti percorsi e le diverse individualità. Al netto di ciò secondo me (e secondo tanti che se ne stanno accorgendo soprattutto all’estero) un “suono italiano”, o meglio “mediterraneo” in questo senso esiste. Ed è un po’ quello sembra stia provando a sottolineare Raffaele Costantino, che oltre ad essere voce storica di Radio 2 e musicista/dj come Khalab ha fondato la sua etichetta – Hyper Jazz. Mi sembra di intuire (ma potrei sbagliarmi) uno sforzo nel sintetizzare una serie di esperienze comuni, un approccio molto italiano alla contaminazione sonora che parte dalla storia dei generi nati per il clubbing e si fonde con interessi etnomusicologici ed il concetto geografico e teorico di Mediterraneo.
Come fare allora per portare anche il jazz italiano nel mainstream? Cos’è che manca? Dobbiamo aspettare un disco di Salmo suonato dai Calibro 35?
Dipende cosa vuol dire portare il jazz italiano nel mainstream. Se parliamo di pura presenza fisica di giovani musicisti dalla formazione jazz all’interno del mainstream, è una cosa che già succede in tutto il Paese. Deriva anche proprio da una questione di comodità: i jazzisti per natura sono i musicisti che di solito riescono ad inserirsi meglio e con più facilità nei più disparati contesti, dal pop da classifica fino all’indie – in anni recenti grande alfiere di questa battaglia è stato Robert Glasper. Basta vedere il mio amico Vittorio Gervasi, sassofonista jazz che suona stabilmente con Venerus e altri progetti, o i ragazzi dei Dumbo Station, formazione nu-jazz romana, che si dividono tra mille progetti come session men (Margherita Vicario, Alex Britti, hip-hop italiano ed internazionale e tante altre cose ancora). Sono solo i primi due esempi a venirmi in mente, potrei andare avanti per molto.
Se invece il discorso è quello di formare una corrente di jazz italiano che “gareggi” in popolarità con gli altri generi e che appaia sui cartelloni dei festival, non saprei. Non lo si può fare a “tavolino”, come giustamente suggerivi tu ironicamente, va contro il senso intrinseco a questo tipo di musica. Anche qui, in qualche modo già succede, ma sono casi spesso isolati e relativi a connessioni o progetti specifici.