Farhot: Il campionamento come arte per celebrare la diversità


TALASSA_diaspora_wide.png

di Gabriele Naddeo
Illustrazione di Thomas Borrely
Foto di Firas Colin

All’inizio del 2021, circa otto anni dopo l’uscita di “Kabul Fire Vol.1”, il produttore hip hop tedesco-afgano Farhot pubblica il seguito del suo primo album da solista. Come per molti altri progetti sviluppati poco prima della pandemia, l’uscita del “Vol.2”, prevista per il 2020, è infine rimandata all’anno successivo. Il producer decide perciò di usare la pausa inaspettata per approfondire la cultura afgana, tra clip su YouTube, film e documentari. Poco a poco, questo viaggio digitale in una terra in cui è nato, ma in cui non ha mai vissuto – dato che la famiglia aspettava solo la sua nascita per lasciare il Paese e trasferirsi in Germania – finisce per influenzare fortemente il disco a cui stava lavorando.

Mescolando beats hip hop e vecchie canzoni in Pashto, stralci di film visti durante il lockdown a versi di artisti contemporanei, Farhot è riuscito nell’impresa di far convivere tradizione afgana e cultura rap, dando alla luce “Kabul Fire Vol.2”, disco dal sound ricco e originale. Oltre ai featuring con JuJu Rogers e Nneka – con la quale collabora dal 2002 – una delle chicche dell’album è Sampling Watana, realizzata insieme all’artista e attivista Moshtari Hilal. È proprio in quella canzone che la filosofia dell’intero album si rivela all’ascoltatore: il campionamento diventa un modo per celebrare la diversità; una forma d’arte che può collegare tutte le molteplici versioni di noз stessз.

(CLICCA QUI PER LEGGERE LA VERSIONE IN INGLESE)

Quest’articolo è stato scritto seguendo le regole dell’italiano inclusivo. Se notate errori o avete segnalazioni da fare, scrivete qui.

Ci sono diversi sample di film e documentari in “Kabul Fire Vol. 2”. È una cosa evidente già nell’intro dell’album, “Bale Bale”, che ha stralci di dialoghi dal film Opium War. Perché hai deciso di campionare film e come è nata l’idea del disco?

Dopo aver pubblicato il primo album, “Kabul Fire Vol. 1”, mi è sembrato del tutto naturale iniziare a pensare ad un secondo disco. D’altronde, dopo un “volume uno” ci si aspetta un seguito, no? Quando ero nella fase di lavorazione del nuovo progetto, ho deciso di voler dedicare del tempo per esplorare meglio la cultura afgana. Dato che non potevo andare lì, ho allora iniziato a guardare video, film e documentari su YouTube. Devo dire che all’inizio non mi aspettavo molto, perché da bambino ho visto con i miei molti film afgani che non mi sono piaciuti. Invece sono rimasto impressionato dalla qualità che ho trovato. Su tutti, mi hanno conquistato soprattutto i film di Siddiq Barmak, il regista di Opium War, perciò poi è stato stupendo aver avuto la possibilità di entrare in contatto con lui. Gli ho raccontato del disco e lui mi ha dato il permesso di usare qualsiasi cosa volessi dal film, al che ho colto l’opportunità per campionare alcuni dialoghi. In ogni caso, devo dire che l’idea di campionare film non è stata frutto di una scelta molto ragionata – quei film e quei dialoghi sono arrivati in modo del tutto naturale. Semplicemente, ho visto dei film e mi è venuto voglia di campionarli, così come farei quando ascolto una canzone che mi piace.

Dal punto di vista della produzione, nei tuoi dischi ci sono un sacco di strumenti vintage: Yamaha CP70, il piano Rhodes, la Celesta…

Diciamo che gli strumenti vecchi mi ispirano più di quelli nuovi. Prendiamo, per esempio, il brano Pul. Lì ci sono solo CP70, un paio di break ruvidi e alcuni campioni indie. Stop. Non sono molti ingredienti, come vedi, ma sono quelli giusti, come nella cucina italiana! Quel beat è abbastanza vecchio e lo considero come una delle mie migliori produzioni. È passato tra le mani di rapper come Nas e Action Bronson, anche un paio di artistз in Germania lo hanno voluto, ma poi è finito nel mio secondo album da solista.

Allo stesso modo, di solito preferisco ascoltare vecchie canzoni piuttosto che nuovi brani. Che poi è il motivo per cui sono diventato dipendente dalla musica: sentire producer che campionano vecchi brani e poi voler scoprire di più sulla musica del passato che hanno usato. Credo che sia stato proprio questo fascino per il passato ad influenzare il mio gusto in generale e la mia passione per gli strumenti vintage.

Lo stesso fascino per il passato che ti ha spinto a scoprire vecchie clip YouTube sull’Afghanistan, giusto? Mi ha interessato molto la poesia che hai campionato in Yak Sher. Puoi dirmi qualcosa di più al riguardo?

In quel pezzo ho campionato Ahmad Shah Massoud – un combattente della resistenza durante l’occupazione sovietica in Afghanistan – mentre recita una poesia scritta da Mohammad Is’Hagh. In quel caso, mi interessava concentrarmi sulla poesia piuttosto che sul personaggio. Perché l’ho sempre conosciuto come un combattente, quindi quando ho trovato questo video in cui leggeva una poesia sono rimasto colpito e ho voluto farne qualcosa. Ahmad Shah Massoud è un personaggio iconico della cultura afgana ed è spesso visto come una leggenda, ma non tutti in Afghanistan lo amano.

Restando sul discorso dei sample, ho trovato molto affascinante quello che tu e l’artista Moshtari Hilal avete fatto in Sampling Watana. Come è nata la collaborazione?

Moshtari è un’artista incredibile, oltre che un’attivista. Seguo i suoi lavori da anni e quando ho iniziato a lavorare su “Vol. 2” l’ho coinvolta nel progetto come una sorta di consulente artistico. Le ho rivolto un sacco di domande e fatto ascoltare le mie produzioni. Lei poi è riuscita a trasformare tutte queste idee e pensieri ancora grezzi in parole e concetti, aiutandomi a costruire quella che poi è la filosofia alla base dell’intero album. Mi ha aperto la mente su molti argomenti, facendomi rendere consapevole del modo in cui ho lavorato a quel disco, di ciò che stavo facendo in quanto produttore e compositore. Sampling Watana è il momento in cui questo processo creativo ha raggiunto l’apice. La canzone non è venuta fuori da una mia produzione, ma da alcuni audio WhatsApp che Moshtari mi aveva inviato. In quelle registrazioni parlava del campionamento e del collage – tecnica a cui si dedica anche nella sua pratica artistica – come metodi creativi per tenere uniti dei frammenti molto diversi. Come dice nella canzone, il campionamento e il collage sono modi per riunire in un stesso spazio tante versioni diverse di se stessз o anche elementi provenienti da epoche diverse. Sono arti che celebrano la diversità.

Ciò che fa Moshtari in quel pezzo è allora elevare il concetto del campionamento, rendendolo il centro assoluto del progetto, piuttosto che considerarlo come un mero strumento per produrre beat. Ha aggiunto significato a quel processo. Quella canzone è allora diventata una celebrazione del sampling attraverso il sampling, un’arte perfetta per esaltare la diversità, considerando che si possono collegare mondi distanti, tempi lontani e versioni diverse di noi stessз. Ascoltare quelle parole è stata per me una grande fonte di ispirazione. Sono partito da quegli audio WhatsApp per poi trovare la musica adatta. Alla fine ho scelto di campionare una canzone in pashto, che è una delle principali lingue parlate in Afghanistan, una lingua che non so parlare. La parola che si sente ripetere in tutta la canzone, watan, significa terra natia.

Parlando dell’Afghanistan, in un articolo su Bandcamp hai detto che la tua famiglia ha lasciato il paese subito dopo la tua nascita, giusto?

Sì esatto, siamo saliti sul tappeto magico e siamo volati qui! Io sono nato in Afghanistan durante l’invasione russa. La mia famiglia stava solo aspettando che nascessi per andarsene dal Paese. Siamo stati molto fortunati ad avere i mezzi per farlo, perché quando vuoi andartene hai bisogno di soldi. Il percorso che la mia famiglia ha seguito per uscire dall’Afghanistan comprendeva un viaggio di notte su un asino verso il confine pakistano, poi hanno proseguito alla volta dell’Iran, preso un volo per la Turchia e infine un altro volo per la Germania. Hanno scelto la Germania soprattutto perché sapevano che c’erano buone possibilità di essere accettati quando si chiedeva asilo lì. All’inizio volevano andare negli Stati Uniti, dato che là abbiamo molti parenti, ma poi non ha funzionato.

Mi piace molto il fatto che i riferimenti alla cultura afgana nel disco siano presenti in una varietà di forme, non solo attraverso musica e film, insomma. Penso alla stupenda copertina dell’album con i tappeti o ai titoli delle canzoni, come Kishmish che significa uva passa, no?

Anche in questo caso Moshtari mi ha dato un grande aiuto. Per esempio, all’inizio Kishmish aveva un nome diverso, è stata lei a suggerirmi il nuovo titolo. A me è piaciuto molto e ho deciso di tenerlo, sia per come suonava la parola, ma anche perché l’uva passa ha un ruolo importante nella cucina afgana. Invece per quanto riguarda la copertina dell’album, mio padre vende tappeti, quindi grazie a lui ho potuto realizzare quelli che vedi nella cover – li ho proprio qui in studio tra l’altro!

Già che stiamo parlando di cibo, mi racconti del progetto Deep Fried? È legato all’etichetta Kabul Fire Records? Come è nata la label?

L’idea di Deep Fried – un progetto che per il momento è in pausa – era di mettere in luce lз giovanз producer, di creare opportunità per loro, motivandolз a produrre nuovi lavori. Io sono un produttore e compositore ma ho iniziato abbastanza tardi a fare musica che era al 100 percento una mia espressione, quindi mi piaceva l’idea di sostenere lз colleghз più giovani, cercando di entrare in contatto con loro e di spingerlз a fare rete. È in fondo la stessa motivazione che mi ha spinto a fondare la Kabul Fire Records. Non mi guadagno da vivere con i proventi dell’etichetta, è principalmente qualcosa che faccio per passione e per promuovere la musica che mi piace. Per esempio, una volta vidi dal vivo qui ad Amburgo un’artista, Kuoko, e rimasi molto colpito dalla sua performance. Dopo quel concerto diventammo amici e ora lei pubblica musica tramite la Kabul Fire Records. Volevo creare un’etichetta che rappresentasse il mio gusto musicale, tutto qui.

E quand’è che hai iniziato a lavorare come produttore? Mi racconti dei primi anni?

Quando 20 anni fa ho scoperto che potevo fare musica campionando le canzoni, ne sono diventato dipendente. All’epoca non si potevano ottenere informazioni così rapidamente, quindi mi ci è voluto un po’ per raggiungere un certo livello, ma alla fine è andata. La mia carriera è decollata quando ho incontrato Nneka nel 2002. Siamo entrati subito in sintonia e ancora oggi facciamo musica insieme. Lei mi ha fatto conoscere tanti bei pezzi afrobeats e mi ha introdotto alla musica africana in generale. Per quanto riguarda il mio primo album da solista, ho pubblicato “Vol. 1” grazie alla Jakarta Records. Mi suggerirono di far uscire un disco strumentale con le mie produzioni e si sono offerti di stampare il vinile per me. Da quel momento in poi, non ho mai smesso di pubblicare musica, sia come Farhot, ma anche attraverso altri progetti, come Die Achse, in duo con il produttore Bazzazian.

Hai menzionato la Jakarta Records di Berlino, ma che mi dici della scena di Amburgo, dove sei di base? Qualche bel locale, club o progetto culturale che vale la pena citare?

C’è sicuramente ByteFM, una fantastica stazione radio che ha sede proprio qui nel Karoviertel, non troppo lontano dal mio studio. Lì non ci collaborano solo espertз di musica, sono appassionatз verз. In quanto a musica dal vivo, credo che il miglior locale in assoluto – e certamente il mio preferito – sia l’Uebel & Gefährlich. Anche il Mojo Club ha un bel programma… Ah sì, quasi dimenticavo il Pudel club! È un locale vicino al porto, più legato al DJing che alla musica dal vivo. È un posto leggendario e spesso ospita grandi artisti. Ci è andato Caribou, tanto per citarne uno.