di Gabriele Naddeo
Illustrazione di Thomas Borrely
Carə lettorə, l’intervista che stai per leggere è l’ultimo contenuto originale di Talassa. Dopo oltre cinque anni e mezzo di attività, il sito si prepara a chiudere i battenti: rimarrà online l’archivio degli articoli pubblicati, ma la pagina non verrà più aggiornata. Considerando che Talassa significa mare, abbiamo avuto pochi dubbi sul tema finale da voler approfondire. A parlarci di mare – oltre che di musica e architettura – è, a nostro avviso, uno dellз autorз e musicistз più validз della musica leggera italiana contemporanea: Mattia Del Moro, in arte Delmoro. Trovando un punto d’incontro tra la grande forza evocativa delle canzoni di Conte e Dalla e la spensieratezza della musica dance, l’artista della Carosello ha dato vita a ciò che lui ama definire “musica pop mediterranea”. Sulla natura di questo suono, in bilico tra nostalgia, leggerezza e autoironia, si concentra la nostra chiacchierata, strutturata in sei brevi sezioni, ognuna dedicata a un mare diverso. In che modo il mare influenza la produzione di Delmoro? Esistono degli elementi alla base di un sound tipicamente mediterraneo? Considerando l’occasione speciale, in aggiunta all’intervista abbiamo chiesto all’artista di scrivere un breve testo, liberamente ispirato al tema scelto. Qui sotto, come preambolo alla chiacchierata, c’è la bellissima riflessione di Delmoro: una chiave di lettura utile per apprezzare ancora meglio la produzione del musicista di Tolmezzo e il modo perfetto per chiudere, con serenità e un pizzico di malinconia, la parentesi editoriale di Talassa.
Il mare
“Eppur parenti siamo un po’
di quella gente che c’è là
che come noi è forse un po’ selvatica
ma la paura che ci fa quel mare scuro
che si muove anche di notte
non sta fermo mai”
Prendo in prestito le parole di Paolo Conte per iniziare questo mio discorso sul mare. Certo, lui in quel brano parla di Genova, che è in fondo “un’idea come un’altra”, per chi scende dalla campagna (o dalle montagne, come nel mio caso) e lascia un contesto conosciuto, opprimente ma anche confortante nella sua abitudine, per affacciarsi sul mare che diventa (non)spazio della possibilità, dell’apertura all’ignoto, dell’alterità, che nel linguaggio della filosofia scolastica è l’opposto di identità. È proprio quel “mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai” che ci fa paura e che ci attrae.
Ben prima che Bauman teorizzasse la “società liquida”, il mare è sempre stato il contesto sociale liquido per eccellenza, dove lingue, culture e commerci si mescolavano in un’unica, multiforme e ondosa identità marittima. Penso ovviamente al Mediterraneo, e penso a De André che scelse il genovese per il suo “Creuza de mä” non per ragioni folkloristiche e localiste, tutt’altro, ma perché il genovese fu in passato la lingua del Mediterraneo.
Quante volte poi il mare è stato teatro metafisico della musica leggera italiana, che ha preferito descriverlo malinconicamente fuori stagione, quando la festa finisce e quello specchio d’acqua riflette la vera essenza delle cose, della vita, e malgrado la malinconia riesce ad essere una presenza amica, di ascolto e conforto. Sarei fintamente naif se negassi tutta questa eredità di immaginario nella musica che scrivo, più o meno consciamente, e che mi piace definire mediterranea.
Concludo con un’altra ammissione, ovvero che è veramente difficile essere esaurienti su di un tema che per me è più un pensiero ricorrente, o forse perennemente presente, un tendere verso qualcosa, un ripercorrere più volte, anche solo mentalmente, quel percorso caro a Conte che dalla campagna porta al mare, facendosi discorso, come dicevo all’inizio, inesauribile, come la forza delle onde.
Mattia Del Moro
Quest’articolo è stato scritto seguendo le regole dell’italiano inclusivo. Se notate errori o avete segnalazioni da fare, scrivete qui. Capitolo 1: Mare Adriatico
Cominciamo con Dove siamo finiti, che rivela il tuo apprezzamento per la musica dance. Genere che in Italia è stato coltivato e che anzi spesso ha anche ispirato chicche – penso a Il Veliero di Battisti nei set di Caribou – ma che forse non è così radicato da noi come all’estero, o sbaglio?
Disco e house sono temi ricorrenti nelle mie conversazioni. A me piace molto ragionare per filoni, quindi essendo un grande appassionato del filone disco poi inevitabilmente mi sono interessato a tutta la sua evoluzione e i diversi sviluppi del genere. Noi italianз già dagli anni ‘70 siamo stati dellз discretз interpretз di questo filone, di fatto dando vita all’italo-disco, fenomeno secondo me ancora troppo poco valorizzato da noi. Io dell’italo-disco ho sempre apprezzato l’aspetto giocoso che andava un po’ a bilanciare l’approccio rigoroso della cassa a 120 bpm. Genere che, tra l’altro, è molto difficile da suonare in quanto molto serrato, molto tight e che lo era ancora di più quando non c’erano le programmazioni di synth e batterie. Un genere che, come lз musicistз incredibilз della Motown insegnano, era tecnicamente molto impegnativo, per quanto fosse basato sulla semplice idea del far ballare le persone.
A questa rigidità della disco, se così vogliamo dire, l’Italia ha sempre aggiunto un tocco mediterraneo, un pizzico di gioco, un piglio più ironico e caldo, che in fondo è proprio ciò che è piaciuto così tanto all’estero. Penso a Moroder e ai Fratelli La Bionda, dove la Germania incontra un approccio più scazzato. A me questo aspetto è sempre piaciuto tantissimo e provo a metterlo anche dentro la mia musica: è il voler ballare, divertendosi e senza prendersi troppo sul serio. C’è sicuramente questo in Dove Siamo Finiti, ma c’è anche una volontà di guardare oltre, cosa che per me si connette moltissimo al concetto di mare. Io sono nato sulle montagne, quindi per me pensare al mare quando faccio musica è un modo per pensare a un altrove, a un’apertura: è una proiezione.
La clip di Dove siamo finiti ci porta sul versante adriatico, nella Villa Mainardis di Marcello D’Olivo a Lignano Sabbiadoro. C’è un motivo particolare per cui ha scelto di ambientare il video proprio lì?
La scelta di girare il video a Lignano è stata proprio una questione familiare, perché ci andavo sempre d’estate da bambino. Credo che tantз italianз abbiano avuto una Lignano nella propria infanzia, poi rimasta impressa nei ricordi, e con quella canzone volevo accendere quest’idea di estate lontana. Poi nel caso specifico dell’immaginario della canzone, il video voleva anche essere un tributo a Lignano in sé che secondo me – e non solo secondo me – ha dei gioielli architettonici italiani un po’ sottovalutati, parte di un’architettura degli anni ‘60 definita come “marittima organica”. Lignano poi, come molte altre località della Riviera Adriatica, è diventata col tempo una meta di turismo di massa e ha conosciuto lo sfruttamento edilizio turistico, ma negli anni ‘60 e ‘70 in quella zona, oltre che a Rimini e Riccione, ci sono stati molti esempi di un’architettura estrosa che a me da architetto ha sempre interessato e che appunto mi piace chiamare “adriatica”.
Un’architettura che, a ben vedere, sembra avere molto in comune con la tua musica: tormentoni danzerecci, ma tutt’altro che banali. È una Riviera parallela: sempre popolare e leggera, ma non superficiale.
Direi poi che nelle mie canzoni c’è sempre anche un elemento nostalgico, non per forza riferito a un periodo storico preciso. È una vena malinconica che forse accomuna molte delle canzoni estive italiane di quel genere. Penso a Figli delle Stelle di Alan Sorrenti che, per esempio, ha sia nella musica che nel testo quella malinconia spesso definita “cantautorale”, ma che secondo me appartiene un po’ anche al nostro comune sentire. Poi sul discorso tormentone, la mia intenzione chiaramente non è di fare la hit calcolata. A me piace il pop soprattutto perché non ha una definizione generica. Ha una connotazione più di messaggio: è il modo in cui tu provi a raggiungere – usando un parolone – l’universalità.
Parlavamo di un concetto simile con Emiliano Ponzi, citando la “sintesi” nel design, che non è semplificazione o banalizzazione, ma un modo per comunicare con efficacia la complessità della realtà.
Esatto, l’intento è di far arrivare un concetto a mia madre come all’amicǝ che ascolta musica d’avanguardia. Ovvio che è un’ambizione che a volte non riesci a raggiungere, ancora di più ora che è tutto molto frammentato. Tra l’altro, non c’è un’unica corrente pop, il che è una cosa molto bella, però mi rimane la voglia e il desiderio di riuscire a scrivere una bella canzone, punto. L’idea è quindi di comunicare a più persone possibili, non di pensare al pop come a un genere.
Capitolo 2: Mar Tirreno
Dalla Riviera di Villa Mainardis in Dove siamo finiti passiamo al litorale romano e alla Villa La Saracena di Luigi Moretti in Lanthimos. Per restare in ambito architettonico, vorrei parlare di progettualità. Com’è l’approccio sonoro di Delmoro alla preparazione di un brano? Si vede che sei molto affezionato alla forma canzone e anche all’aspetto della narrazione.
Una canzone per me è molto vicina a quello che potrebbe essere un progetto di architettura, anzi in fondo è un progetto a tutti gli effetti. Dopo diversi anni passati a scrivere canzoni, non dico che poi svanisca l’aspetto romantico – anzi quello lo cerchi sempre – ma ti trovi comunque a fare i conti con la tua ispirazione. Allora per uno che fa questo tutti i giorni non sta molto bene il fatto di essere ispirato, che so, solo una volta a settimana: vorresti sentirti ispirato sempre. Perciò se ti sta a cuore questo aspetto, cerchi di capire quotidianamente cos’è l’ispirazione, imparando a veicolarla e andartela a prendere nei momenti in cui senti di non averla così forte. In questo senso, secondo me, il mio scrivere canzoni è progettuale: perché si impara a cercare le idee attivamente e con una certa metodicità, non credi più al mito dell*artista bohémien che sta lì fermǝ, aspettando che l’ispirazione lǝ cada addosso. La struttura ti aiuta ad essere ispirato in modo più costante, a lavorare meglio. Poi chiaramente scrivere canzoni è un ambito più astratto dell’architettura, quindi a volte le cose non funzionano e basta, manca quella scintilla che poi fa scattare la progettazione.
Legando questo discorso all’aspetto della sonorità, diciamo che a me piace molto selezionare i colori della tavolozza prima di dipingere. Perché mi piace l’idea di darsi dei limiti dentro i quali agire. Ci sono tantз musicistз che, per esempio, nell’ambito dell’elettronica vogliono usare solo tre sintetizzatori e basta, dato che oggi con i computer sei anche spaventato davanti a un’idea di possibilità così vasta, delle centinaia di suoni che hai a disposizione. Quindi la scelta della palette sonora ha anche a che fare con il darsi dei limiti e il voler esplorare all’interno di quel perimetro. Se scegli un synth degli anni ‘80 come il Juno o il Jupiter, poi vuoi comunque esplorare quello che ti offre lo strumento, che è comunque tantissimo. E in questo senso c’è, di nuovo, progettualità. Prima scelgo gli ingredienti per un pezzo, poi si parte e vedo dove si arriva. Perché so di avere un istinto molto forte nella scrittura, quindi so che una volta che ho degli elementi a disposizione poi ciò che succede succede. È molto bello secondo me lavorare con progettualità, darsi dei limiti e poi però sfogarsi al massimo, lasciarsi andare. Quindi alla fine è una progettualità un po’ istintiva, che sembra un ossimoro, ma descrive bene il modo in cui io lavoro.
Restando sulla costa tirrenica, volevo commentare con te il testo che hai scritto sul mare.
Paolo Conte nella canzone che ho citato dice di Genova che è “un’idea come un’altra”. Allo stesso modo, per me che vengo dalle montagne il mare ha con sé una certa astrazione. Al mare ci pensi soprattutto quando ne sei lontano. I pensieri si accavallano e alla fine più che pensare al mare è quasi un tendere verso il mare. La canzone di Conte è bellissima soprattutto per questo concetto. Poi alla fine il bello del mare è che non si può mai comprendere completamente, perché è di tuttз e di nessunə, qualcosa che non ci apparterrà mai.
Invece quando ho citato De André e la sua scelta linguistica – che sembra localista, ma in realtà è proprio il contrario – c’entra un po’ l’idea a cui accennavo prima dell’universalità. È un’ambizione anche un po’ ingenua, perché non so se un’universalità esiste, così come non so se esiste un’identità mediterranea. Però, anche in questo caso la volontà di fondo è un “tendere verso”, verso le persone, in questo caso. Persone che, anche se sempre più diverse tra loro, forse rimangono tutte unite da un qualcosa in comune, da un mare forse immaginario.
Capitolo 3: Mar Mediterraneo
La tua biografia sul sito della Carosello cita “suono pop mediterraneo”. Come hai appena detto tu, è difficile pensare a un’identità mediterranea ben definita. Però mi piaceva l’idea di provare a teorizzare questo sound, di trovare dei punti fissi. In questi ultimi anni, diversi artisti – penso a Pellegrino, ai Nu Genea o alla Mystic Jungle Tribe – si sono riferiti spesso all’idea di sonorità mediterranee. Quali sono, secondo te, gli aspetti imprescindibili del suono mediterraneo? Tipo a me verrebbe da pensare a dischi come “Anima Latina” di Battisti o “Ventilazione” di Fossati.
Secondo me una caratteristica fondamentale, e penso di nuovo a Conte quando si riferisce alla gente di mare un po’ selvatica, è l’aspetto sfuggente, proprio perché è difficile dare una definizione di suono mediterraneo. Mi piace il fatto che ogni volta che provi a ingabbiarlo, lui va da un’altra parte, come i venti di mare che girano velocemente. Poi ti direi una sorta di ariosità nella musica, anche se poi non so bene come argomentarla. È sicuramente più facile parlare per esempi e tu ne hai citati un paio che condivido. Fossati, effettivamente, lo trovo estremamente mediterraneo nei testi, il che non è per niente facile. Perché una cosa è rendere un suono diciamo più “marittimo”, un’altra cosa è farlo con le parole, senza parlare necessariamente di mare. Fossati per me è un autore molto mediterraneo in toto e sicuramente uno dei miei preferiti. Anzi, forse proprio il mio preferito della canzone italiana.
È bello poi vedere che il Mediterraneo ha tante sponde e non è un mare che tocca solo l’Italia. Quindi sicuramente io penso anche al mondo balearico, che forse ancora di più rende l’idea, soprattutto nell’ambito più vicino a me, ovvero quello del filone disco. C’è tantissima produzione musicale delle Baleari che non è solo per i club più strettamente dance floor. Penso a un’etichetta come International Feel, con cui Jolly Mare ha appena pubblicato l’album “Epsilon”. Loro da diverso tempo fanno una sorta di crossover tra mondo dance floor e ambient che secondo me rappresenta perfettamente questo suono a cui ci stiamo riferendo.
Poi ti citerei anche una compilation curata da Young Marco solo sull’italo house di fine anni ‘80 e uscita in tre volumi in vinile: “Welcome to Paradise (Italian Dream House 89-93)”. Queste tre uscite racchiudono un po’ i concetti ideali del sound mediterraneo: c’è l’ariosità di cui parlavo prima e c’è la leggerezza, altro elemento secondo me fondamentale. È un senso di leggerezza che non è però superficialità, ma più una leggerezza calviniana, il saper stare in qualche modo sopra le cose. Il sound di “Welcome to Paradise” ti trasmette queste sensazioni perché è danzereccio, ma anche molto malinconico, etereo ed astratto, che per me poi è un ritratto di quello che può essere il mare in generale e quindi anche il Mediterraneo.
Capitolo 4: Mar Egeo
C’è una cosa che dici spesso di Lanthimos che è bellissima: usare le parole in modo suggestivo, non solo per il significato che rappresentano, ma anche per una certa capacità evocativa. Mi interessava allora capire il tuo approccio alla scrittura di un brano. Sbaglio o torniamo sempre a Paolo Conte?
Sì, esatto. Non voglio in nessun modo avvicinarmi a Conte, ma chiaramente sono cresciuto con le sue canzoni, che hanno una grandissima forza evocativa. Poi io vado matto per le parole singole. Perché anche se la canzone è fatta di versi e parole messe insieme, così come tutte le conversazioni che conosciamo, io ho quasi sempre una fascinazione per le parole individuali. Vale lo stesso per Lanthimos: la parola in sé per me richiamava quest’idea di Mediterrano, di isola greca, anche se poi a ben vedere i film del regista che cito hanno poco di quell’ariosità mediterranea a cui accennavo prima. Quindi, ecco, mi piaceva creare questo contrasto. Diciamo che per me scegliere le parole con cura è come buttare dei sassolini nell’acqua che quando cadono lasciano molte onde alle spalle.
È chiaro che per fare qualcosa del genere si ha bisogno anche di una certa attenzione in chi ascolta, di una partecipazione. Perché la cosa che mi piace di questo processo è il non voler chiudere per forza il senso delle canzoni, ma tenere aperti i versi. Lo hanno fatto tutti i miei “padri spirituali”: Conte, in primis, ma anche Dalla, per esempio. Loro sapevano come lasciare questa porta aperta verso altri significati. Però questo processo funziona solo quando hai l’attenzione di chi ascolta, un concetto che si scontra un po’ con il voler fare una canzone pop, sintetica e diretta, in grado di arrivare a quante più persone possibili. Non è facile trovare un equilibrio tra le due parti, ma ci sono ancora diversi artisti che lo fanno, penso a una canzone come I Pomeriggi di Giorgio Poi, dal suo ultimo album “Gommapiuma”. Diciamo che un elemento specifico della canzone italiana è la grande attenzione prestata alle parole. Una cosa che ha in comune con la musica brasiliana, tra l’altro. L’attenzione alla parola è forse l’unico minimo comune denominatore che c’è nella canzone italiana e di questa cosa secondo me te ne rendi conto solo dopo un po’. Il potere di un testo di Dalla o Conte è una cosa inspiegabile, infatti mi chiedo spesso, dato che Conte è famoso anche all’estero, cosa arrivi veramente. Io Conte l’ho visto una volta sola a Londra, al Southbank Centre, e mi chiedevo appunto cosa passasse di quel suo modo di scrivere i testi. È suggestione, è suono, evocazione, significato, significante: è incredibile.
Restando sul tema delle parole nelle tue canzoni che evocano un immaginario “greco”, mi viene subito in mente Filippiche. Lì secondo me viene fuori un altro elemento alla base della poetica di Delmoro: l’autoironia.
L’autoironia è un aspetto che amo e che, per esempio, ritrovo molto nella cultura del Sud Italia, ma che io provo ancora a coltivare, perché da uomo di montagna spesso sono molto duro su tante cose. Invece ho tantз amicз nell’ambito culturale che vengono dalla Campania o dalla Sicilia e che hanno questa capacità meravigliosa di smorzare i toni anche quando si tratta di temi molto elevati. Penso spesso anche a Camilleri: lui nelle interviste aveva sempre questo spirito siculo molto alto, ma al tempo stesso così leggero, vicino al mare, appunto. Quindi essere autoironico nelle canzoni per me forse è una specie di promemoria: non mi sento mai abbastanza così leggero, quindi alla fine se scrivo una canzone in quel modo mi aiuta un po’ anche a stemperare, a inseguirla quella leggerezza.
Capitolo 5: Mar del Nord
Cambiamo radicalmente scenario e dall’Italia del Sud passiamo al nord Europa. Una decina di anni fa, hai vissuto in Danimarca, a Copenhagen. È lì che ti sei appassionato alla musica da club, giusto?
Sì esatto, è una passione nata insieme alle mie prime sperimentazioni con l’elettronica. C’è da dire che mi sono avvicinato a questo filone non da frequentatore di club, ma più come da nerd che vuole capire come far girare un beat nel modo giusto e far ballare gli altri. Sono un tipo più da studio e da sintetizzatore, insomma. Poi al tempo a Copenhagen c’era una scena locale molto attiva, non house e disco, ma più una elettro scandinava mischiata al jazz.
Dici elettro scandinava e mi viene subito in mente Todd Terje e il suo pazzesco “It’s Album Time”…
Assolutamente, anche se quando è uscito quell’album, nel 2014, io mi ero già trasferito da un po’ a Londra. Sarebbe stato sicuramente meglio se fosse arrivato quando ero a Copenhagen, anche se in realtà questa scena scandinava si concentrata principalmente in Norvegia e Svezia. La cosa interessante di un disco come “It’s Album Time” è che, se vedi, è molto proiettato verso il Mediterraneo. È un po’ quel discorso a cui accennavo prima: il processo di andare dalla montagna verso il mare. È il voler andare verso qualcosa che non ti è vicino, che è altrove, e Todd Terje – così come altri producer di quel genere, tipo Lindstrøm – lo fa con una maniacalità tutta scandinava. In “It’s Album Time” le batterie che senti non sono suonate, sono tutte programmate, anche quelle che sembrano acustiche. A livello pratico è una roba incredibile da realizzare – nonché una bella rottura di palle – ma a quella maniacalità però si accosta anche una certa dose di ironia. Ironia che forse non appartiene veramente al produttore; secondo me è più un desiderio di voler arrivare a quel tipo di immaginario.
Hai citato Londra, una città che si può vivere in mille modi diversi. Tu quando ero lì che luoghi frequentavi? Come ti ha influenzato dal punto di vista artistico?
La mia Londra era quella dei club di Hackney: lo Shacklewell Arms e il Dalston Victoria – dove ho anche suonato – poi l’Oslo, il Birthdays… Quelli sono posti che fanno un concerto al giorno, dei veri palcoscenici per artisti emergenti. A Londra continua a funzionare il fatto che un gruppo si arrangia da solo, non è che si deve entrare per forza in una struttura di manager, agenzie eccetera. Tendenzialmente il concerto funziona ancora come biglietto da visita: i club danno lo spazio a disposizione e la band organizza la serata, chiamando anche lз addettз ai lavori. È molto bello vedere che in quel caso c’è anche una comunicazione fisica, non solo social. Certo, si mandano le demo alle case discografiche, ma l’attività principale resta il concerto. È questa fisicità di Londra, questa aggregazione – almeno parlando di tempi pre-covid – che secondo me c’è dietro il fenomeno delle cosiddette “scene”. Lì si suona tantissimo è c’è ancora questa idea di fare gavetta con i concerti nei pub.
Io quando ero lì, ho suonato con Mind Enterprises, il progetto di Andrea Tirone, musicista di Torino trasferitosi a Londra. Nel 2016 ci siamo esibiti al festival del Victoria Park, poi abbiamo girato un po’ l’Inghilterra, dalla Cornovaglia fino al nord. L’aspetto live a Londra è sicuramente molto duro: paradossalmente in Italia può essere più facile perché un minimo di cachet lo prendi sempre, anche se molto ridotto, mentre lì inizia ad arrivare quando ti sei fatto il nome. Però, al tempo stesso la fotta del suonare è altissima, un aspetto che mi manca tanto devo dire. Ancora di più se, considerando la situazione in cui siamo ora, è diventato sempre più difficile tenere in piedi un locale in cui andare a vedere artisti poco conosciuti. Milano – anche prima dei problemi legati al coronavirus – si è chiusa tanto a un giro di musica estera e internazionale, legandosi sempre di più alla musica italiana. C’erano dei posti, penso all’Ohibò, che rappresentavano anche qui l’idea del club londinese, dove hai una programmazione settimanale variegata e arrivano progetti da tutta Europa, ma molti non hanno retto all’impatto della pandemia.
Parlavo qualche tempo fa di questo tema con Ercole Gentile. Lui ha detto una cosa giustissima al riguardo, cioè che sono proprio i locali piccoli a creare l’humus culturale di una città. Nel momento in cui spariscono, mancano proprio gli spazi per aiutare gli artisti a fare gavetta.
Sono assolutamente d’accordo e la chiusura dei piccoli locali, tra l’altro, non mi sembra legata unicamente al covid. È purtroppo una tendenza generale degli ultimi anni, dovuta a una morsa tecnico-burocratica sempre più forte e stringente. Per cui se non si fa anche un intervento politico è molto difficile mandare avanti una venue che non ha enormi profitti ed è costantemente al limite della sopravvivenza. Questi locali svolgono un ruolo culturale fondamentale anche in provincia, non solo nelle grandi città. Però in provincia invece di supportare queste realtà, negli ultimi anni si è spesso privilegiato un tipo di manifestazione grossa e organizzata una tantum: si fa un grande evento, si monetizza, si dice che si dà lavoro a tanta gente del settore e che si porta economia, ma la si porta per tre giorni e basta. Sono tutte scuse, con cui si riesce anche ad avere aiuti e sovvenzioni, quando poi con quel tipo di budget si potrebbe coprire per tutto l’anno una programmazione culturale e dare lavoro allo stesso numero di addettз per 12 mesi, non solo per tre giorni. I grandi eventi a volte sono un grande fake, soprattutto adesso. Sarebbe importante non sottovalutare la potenza di una rete di piccole realtà. Anche una città enorme come Londra non sarebbe niente senza i suoi piccoli locali.
Capitolo 6: Oceano Atlantico