Chiara Barison: Tutte le strade portano a Dakar


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di Gerardo Russo
illustrazione di Thomas Borrely

Chiara Barison, volto noto della tv senegalese, ci racconta una metropoli africana: Dakar. Chiara ha scelto di migrare in Senegal per costruire il proprio percorso professionale. Oggi conduce una rubrica di sociologia in onda sull’emittente TFM – Télé Futurs Media. Abbiamo deciso di conoscere Dakar attraverso la sua esperienza. Una metropoli fortemente caratteristica, ma storicamente connessa con il mondo intero. La città si è infatti sviluppata in una posizione strategica, nel punto più ad ovest del continente africano, diventando un punto di congiunzione tra Europa, Africa e America del Sud. La compongono tanti quartieri, tutti molto popolosi. Il più moderno è Dakar-Plateau, che si sviluppa a partire dalla Place de l’Indépendance. Dakar è caratterizzata dalla confusione e dai colori, dal traffico e dalle più disparate offerte dei commercianti che ne animano le strade. Si può ammirare uno scorcio della metropoli sulla Corniche, la strada litoranea che al tramonto si anima di un esercito di giovani sportivi, o nei tanti locali notturni che ne accendono la movida.

Partiamo dalla tua esperienza. Come sei arrivata in Senegal?

Ci sono arrivata un po’ per caso. Ho conosciuto diversi senegalesi durante il mio Erasmus in Francia che sono stati ottimi ambasciatori del loro Paese e mi hanno spinta a visitarlo. Arrivata lì ho trovato una Dakar giovane e dinamica, completamente diversa dall’immagine stereotipata che avevo. Successivamente ho approfondito nella mia tesi di laurea le migrazioni senegalesi nel Nord Italia. La migrazione senegalese è particolare perché crea reti nei paesi di destinazione ed è spesso una migrazione di ritorno. Ho continuato le mie ricerche con un dottorato in politiche transfrontaliere, effettuando studi sul campo in Senegal e mi sono appassionata tanto al paese.

Cosa ti ha spinto poi a restare e cercare lavoro lì?

Dopo il mio dottorato si sono aperte delle opportunità lavorative in Senegal. In Italia le possibilità c’erano, ma erano più difficili da trovare e con un corrispettivo economico meno stimolante. Io, appena dottorata, ho deciso di cogliere ciò che mi si presentava. Ho iniziato dando corsi in alcune università private di Dakar a studenti da tutto il mondo.


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Come è arrivata la televisione?

Non è arrivata per scelta. Tutto nacque da un suggerimento di un amico. Raccoglievo le mie esperienze personali sul Senegal nel mio blog Dakarlicious. Mi sono chiesta a un punto se avesse senso scrivere in italiano sul Senegal o allargare la platea anche ai senegalesi. Un po’ per pigrizia mi sono detta che forse la televisione poteva essere un canale di comunicazione più immediato per raggiungere molte persone. Mi sono presentata così alla TFM, nota stazione tv senegalese, il cui proprietario è il celebre cantante Youssou N’Dour. Non avevo nessun appuntamento, ma in quel momento usciva dalla sede Bouba N’Dour, fratello di Youssou. Ho cominciato a parlare con lui che, incuriosito, mi ha dato fiducia. La cosa è nata così, come una scommessa. Sono stata la prima europea che ha fatto da presentatrice in una tv senegalese. Loro potevano aprirsi a delle critiche, considerando che il paese sta lavorando molto sulla nazionalizzazione, dando spazio ai locali e al wolof (ndr la lingua più parlata in Senegal), mentre io non avevo esperienza diretta in questo campo. La scommessa è andata bene. Conduco così una mia rubrica socioculturale, Parmi nous, all’interno della trasmissione Yeewu Leen, che è una sorta di Uno Mattina senegalese per capirci.

Di cosa parli nella tua rubrica e qual è il tuo rapporto con i telespettatori?

Nella rubrica parlo di come i senegalesi vedono la migrazione in loco. Mi sono detta che si parla talmente tanto della migrazione dei senegalesi nel mondo, ma poco del Senegal come terra d’immigrazione, nonostante storicamente lo sia. All’inizio ho cominciato molto simpaticamente, considerando il mio venir da fuori e il delicato tema della migrazione. Mi sono man mano costruita un legame con i telespettatori e quando si è instaurata una fiducia reciproca ho iniziato a parlare di temi più impegnativi, quelli cioè che possono creare diatribe, ma che sono necessari. D’altronde lo sguardo di chi viene da fuori può aiutare a capire ciò che non va.

Come hai vissuto la tua migrazione in Senegal e quanto è stato difficile affermarsi?

Lavoro dal 2012 per il gruppo Futurs Médias e nel frattempo svolgo consulenza nel campo della comunicazione. Il Senegal è stato il mio El Dorado professionale, dandomi subito delle possibilità e mettendomi alla prova in campo internazionale. Il percorso è stato duro. È sbagliato credere che da occidentale tutto sarà più facile in Africa, anzi comincia a esserci una migrazione inversa e tutto sta diventando più difficile. Il mio è stato un percorso atipico insomma, ma mi piacerebbe provare esperienze anche altrove in futuro.

Sei diventata così un volto noto per i senegalesi.

Oggi sono una figura pubblica in Senegal, ma lì non esiste l’idolatria per i personaggi televisivi. C’è un approccio molto più pragmatico. Tutti ti riconoscono, ma si è parte della comunità, come può esserlo un panettiere. Ti salutano come se ti conoscessero, ma in modo empatico, come dei vicini di casa. Mi è capitato di incontrare senegalesi all’estero che mi riconoscono e mi salutano in wolof.


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Che tipo di migrazione c’è invece in generale verso Dakar?

Il Senegal è storicamente un paese d’immigrazione. Ci sono spostamenti dalle regioni verso la capitale, dalla periferia al centro e anche da altri paesi africani, come Costa D’Avorio, Guinea Conakry e Mali, che hanno creato nel tempo vere e proprie comunità. Oggi ci sono 80 comunità straniere. Negli ultimi anni c’è stato un aumento delle migrazioni provenienti dall’Europa, forse perché il Senegal è molto aperto e offre stabilità politica, una buona posizione geografica e possibilità economiche interessanti se si è preparati. Ci sono molti giovani che vengono qui, sia con scopi imprenditoriali che per cercare lavoro impiegatizio. Arrivati ci si scontra spesso con una realtà difficile. Si arriva credendo che il costo della vita sia basso e che si riesca a vivere bene con uno stipendio locale, venendo smentiti presto, considerando poi che sanità e istruzione sono spesso a pagamento. Ci sono anche strutture pubbliche, ma molti preferiscono quelle private poiché hanno standard diversi. Molti senegalesi proprio per l’alto costo della vita decidono di tentare la via della migrazione.

Ti capita di incontrare ragazzi senegalesi che ti chiedono consigli sull’Italia o che vogliono partire?

C’è ancora l’approccio del “vorrei andare in Italia” o “vorrei una moglie europea”, derivante dai tanti senegalesi che negli anni Novanta hanno fatto fortuna in Italia. Molti pensano che investendo nella partenza si otterrà più che investendo localmente. Ora però la tendenza si sta invertendo. Ci sono molti giovani che si battono per spiegare che il viaggio è un diritto, ma che è essenziale informare sui rischi di un percorso irregolare, affinché tutti possano scegliere consapevolmente cosa fare. Riuscire altrove non è impossibile, ma è anche possibile investire in se stessi, nella propria formazione e valorizzando quello che offre il paese. Riuscire in loco può poi aiutare a viaggiare in modo regolare in futuro. Ci sono poi tanti giovani europei che vengono qui e questo fa riflettere. C’è forse qualcosa che non è stato detto sull’Europa. Quando però ci si muove tra persone analfabete o dove manca l’accesso a internet è più difficile. Molti potranno pensare più facilmente che l’unica soluzione è partire. I giovani intellettuali del Senegal comunque sono un grande esempio per il paese e stanno mostrando che tutto è possibile con la volontà e la fiducia in se stessi.

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I senegalesi della diaspora li chiamano i “sacrificati”, perché hanno vissuto tanto all’estero per costruire qualcosa in Senegal.

Com’è cambiata la migrazione senegalese negli ultimi anni?

Prima era forte la migrazione verso la Francia, poi si è diffusa quella verso Spagna e Italia, per poi spostarsi verso il Nord Europa, l’Asia ma anche il Sudamerica. Ci sono tante direzioni nella migrazione, ma la traiettoria più interessante è il ritorno. La crisi occidentale ha accelerato il ritorno di tanti senegalesi. Ci sono tanti che hanno scelto di investire in loco, anche se a volte mancano gli strumenti di supporto. I senegalesi della diaspora li chiamano i “sacrificati”, perché hanno vissuto tanto all’estero per costruire qualcosa in Senegal. Il reinserimento socio-economico è comunque difficile e molti si sono organizzati in associazioni, come Ndaari, a Thies. Una rete creata da Karounga Camara, già autore di Osare il ritorno, una guida pratica per i senegalesi che vogliono rientrare. L’associazione offre un mutuo aiuto sia amministrativo che economico, stimolando i consumi all’interno della rete per supportarla.

Hai avuto modo di conoscere bene Dakar con la tua esperienza. Quali sono le differenze e le similitudini con le metropoli europee?

Dakar è una metropoli caotica, disordinata, ma che pullula di energia. L’offerta che si può avere è simile a quella di altre metropoli, ma chi viene da altre capitali africane meno moderne resta sorpreso vedendo Dakar, che è considerata la New York dell’Africa subsahariana. Anche se, rispetto alle metropoli occidentali, forse c’è poi quel tocco senegalese, che rende tutto più interessante e particolare a Dakar. La città poi sta crescendo molto, seppur in modo disordinato e creando malumori. La crescita in certi aspetti è devastante sull’ecosistema dal punto di vista urbano. Stanno infatti scomparendo poco a poco le spiagge pubbliche. Infine, rispetto ad altre metropoli, si nota di più il divario economico e sociale che c’è in Senegal. Ad esempio per quanto uno possa andare in un quartiere residenziale, con ville faraoniche, potrà comunque incontrare dei talibè (ndr bambini delle scuole coraniche che mendicano tra le strade).


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Quali sono gli impieghi più diffusi a Dakar e i settori più in crescita?

Molto forte è il commercio locale, in particolare i senegalesi hanno una grande capacità di reinventarsi e riportare in vita qualsiasi cosa. Sono in aumento i mestieri legati al mondo della comunicazione. Si sviluppano start-up, media e tv private. Queste rappresentano delle possibilità per i giovani, offrendo anche corsi per formarsi in questo settore. Si sta poi cercando di stimolare la nascita di nuove imprese produttive, considerando che gli investimenti nel settore privato arrivano per lo più attraverso la cooperazione o i senegalesi della diaspora. Il COVID-19 ha aiutato a dipendere meno dalle importazioni, con molte start-up che si sono reinventate, accrescendo il commercio e la pubblicità online di prodotti locali, oltre ad altre che lavorano nel mondo del biologico e nella produzione di cereali locali. Si lavora molto sul produrre e consumare localmente, per diminuire la dipendenza dall’esterno e contribuire allo sviluppo locale. Si sta cercando di diffondere una mentalità insomma, quella del consumo locale, a cui molti blogger e attivisti danno il loro contributo.

Come ha affrontato Dakar il COVID-19?

Dal primo caso di coronavirus sono state prese misure restrittive che consideravano il background sociale, culturale e religioso del Senegal. Era impossibile un totale lockdown qui. È stato dichiarato lo stato d’emergenza, introducendo un coprifuoco serale, chiudendo i luoghi pubblici e implementando lo smart working, ora diffuso in tutti gli uffici. Molto interessanti sono stati i canali di comunicazione. In particolare è stata diffusa una serie tv comica, Allo Allo, dove ridendo si riflette sui comportamenti da seguire, sulle fake news e sulla stigmatizzazione dei pazienti. Le misure prese in ogni caso sono state efficaci poiché non c’è stata la temuta ecatombe.

Parlando invece di arte e cultura, come è vissuta la musica a Dakar? Quanto è forte la musica tradizionale, lo mbalax, e quanto invece quella contemporanea, come l’hip hop, il rap o anche il raggae? Come si coniugano queste dinamiche a Dakar?

La musica è una presenza costante della società senegalese. Youssou N’Dour ha diffuso il Paese nel mondo attraverso la musica, rendendo noto lo mbalax in campo internazionale. Nonostante ciò il Senegal si è aperto molto alle contaminazioni esterne. La salsa cubana regnava sovrana fino a a qualche decina di anni fa. Diffuso è anche l’hip-hop, in cui si annoverano i WA BMG 44, uno dei primi gruppi underground, fondati da Matador, noto rapper senegalese. Matador è oggi presidente di Africulturban, associazione di cultura urbana dell’area di Dakar, che diffonde tutto ciò che è cultura urbana, permettendo ai giovani in difficoltà di approcciarsi al rap, ai graffiti, allo slam o alla breakdance. Offre anche corsi gratuiti professionalizzanti, come in campo audiovisivo. Ci sono tanti spazi e centri culturali e c’è una crescita anche nella produzione di videoclip, prima molto kitsch, oggi più spendibili. Sta cominciando ad avere un certo interesse il tango e c’è anche molta musica acustica, tra cui Souleymane Faye, che ha cantato un brano con una strofa in italiano, Thiabi bi (la chiave). Non si può poi non citare il cantante mbalax per eccellenza, Pape Diouf. Il panorama è molto vasto, con una forte presenza femminile.

Esplorando Dakar si ammirano tanti murales. Come si sono diffusi?

La street art si è sviluppata grazie alla diffusione della cultura urbana. Tante associazioni la promuovono, aiutando i giovani che si avvicinano ad essa. Artisti celebri hanno poi realizzato opere tra le strade di Dakar, lavorando molto su tematiche sociali. L’arte comunque è sviluppata su più fronti, ad esempio vive in Senegal lo scultore italiano Mauro Petroni, che ha realizzato tante iniziative a Dakar, tra cui un’opera sulla Corniche.

Nel 2010 è stato completato il Monumento al Rinascimento Africano. Alto 49 metri, su una collina di circa 100 metri, ha avuto un impatto decisamente forte sull’immagine della città. Come è stata vissuta  quest’opera dalla popolazione locale?

Il Monumento al Rinascimento Africano è stato voluto dall’ex presidente Wade, per rappresentare il nuovo sguardo degli africani verso di loro e da parte di chi viene da fuori verso gli africani. Ha ricevuto molte critiche, sia per i costi sia perché molti non riuscivano a vederlo come un investimento per il turismo. La protesta è andata poi scemando negli anni. Oggi c’è sempre movimento intorno al monumento e i senegalesi l’hanno fatto un po’ loro.

Nel 2018 è stato invece inaugurato il Museo delle Civiltà Nere, una grande opera architettonica e culturale che unisce i traguardi scientifici, culturali e artistici del continente africano.

Il Museo delle Civiltà Nere rientra sempre in un discorso di riappropriazione storica e culturale ed è stato subito accettato, anzi i senegalesi se ne fanno vanto. Il tempo che è passato tra le due opere ha influito molto sulle differenti reazioni. All’epoca del monumento c’era una protesta generale verso Wade. Sono comunque due realizzazioni identitarie forti. Il monumento è visibile ovunque, mentre nel museo si organizzano tante cose interessanti.


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Quanto pesa in Senegal il rapporto tra città e provincia?

C’è una differenza a volte abissale tra i centri urbani senegalesi. Un divario economico e di possibilità. Bisognerebbe proteggere ciò che è locale, evitando di sviluppare qualcosa che somigli ai modelli occidentali, garantendo invece i modelli africani e in particolare senegalesi. Le differenze sono sia tra centri urbani e periferie sia tra una regione e l’altra. Ci sono molto aree non supportate e poco valorizzate, quando invece ci sarebbe un grande potenziale. Se si compara Dakar e un villaggio della Casamance (ndr regione del sud del Senegal) ci si rende conto che sono due universi lontanissimi.

Come racconteresti invece il confronto tra Africa ed Europa?

 Il dualismo Africa – Europa racchiude tantissime cose, ma quello che secondo me è rilevante è lo sguardo che si ha. Mi spiego meglio. Il giornalista senegalese Hamidou Anne suggerisce di  abbandonare lo sguardo afro-entusiasta, che fa apparire tutto stupendo, così come quello afro-pessimista, che si focalizza solo sui problemi. Bisognerebbe invece avere uno sguardo afro-responsabile. Ciò implica realismo, essere capaci di vedere ciò che di buono si sta sviluppando e ciò che invece dovrebbe essere migliorato. Questo è lo sguardo che cerco di avere e di condividere con la gente. Spogliarsi di tutti i pregiudizi ed essere realisti. Penso che a volte nel racconto che viene fatto dell’Africa in Europa manchi un racconto della quotidianità, che fondamentalmente non è lontana da quello che viviamo in Europa, cioè andare a lavoro, crescere dei figli, fare sport, innamorarsi. C’è invece sempre uno sguardo che volge al pietismo, che può essere davvero fastidioso. 

Dov’è più forte la teranga senegalese (ndr ospitalità, accoglienza) tra villaggio e metropoli? Come si sta evolvendo il ruolo della condivisione nell’economia senegalese?

La realtà si sta trasformando anche nel fondamento della società senegalese, che è la condivisione. Ci sono giovani che si sposano e vogliono una loro casa, seguendo percorsi simili a quelli delle coppie europee. Si mantengono allo stesso tempo modalità tipiche del villaggio anche in una realtà come Pikine, nell’area urbana di Dakar, dove esistono strutture familiari di quartiere. Quello che forse cambia di più tra città e villaggio è quel “retrogusto d’interesse” verso qualcosa o qualcuno. Il furto è ormai sdoganato nelle città. Tutti tengono chiuso tutto, persino i frigoriferi. Nei villaggi invece puoi lasciare tutto aperto e nessuno toccherà nulla. Le basi della cultura senegalese rimangono forti nei villaggi, mentre nelle città forse si stanno perdendo alcune cose andando verso situazioni un po’ negative. Rimane comunque un mio punto di vista, senza alcuna pretesa di oggettivazione.