di Giovanni Colaneri
Ogni volta che mi accingo a scrivere di gruppi musicali che hanno un certo nome mi chiedo “perché il nome di questa band è grande? Perché questo album merita di essere esplorato ancora più di quanto è già stato fatto?”. Forse fare questo non è possibile, soprattutto se si parla di un album come “Physical Graffiti“, tutt’altro rispetto al “masterpiece” di un’epoca che, il più delle volte, viene utilizzato come manifesto musicale di una band. I Led Zeppelin, questo, c’hanno impedito di poterlo fare. Chi pensa di poter afferrare quest’album e guadarlo pensando che rappresenta la propria epoca meglio o anche solo al livello di a qualunque altro scritto dal gruppo, inevitabilmente sbaglia. I fan di minor interesse avranno prestato attenzione al successo commerciale di canzoni come Stairway to heaven in “Led Zeppelin IV” o Kashmir nello stesso “Physical Graffiti”, senza andare a scavare (tanto meno a comprare, specialmente oggi, nell’epoca d’oro della pirateria) all’interno degli album e scoprire i piccoli variegati capolavori che popolano le incisioni dei vinili.
Quest’album non serviva ai Zeppelin per raggiungere la vetta, tanto meno per conquistare la fama ed il successo… forse non avevano davvero niente da fare. Consideriamo che per tutto il 1973, dopo la loro precedente pubblicazione, non hanno scritto nulla (anche a causa dell’operazione di Robert Plant alle corde vocali) e che nell’arco di due anni hanno giusto creato una loro etichetta discografica, Swan Song Records, con a capo il loro grande manage – “grande” non si fa solo per dire – Peter Grant, e dato vita a 8 tracce che solo assieme ad alcuni scarti dei precedenti album avrebbero costituito “Physical Graffiti”. Si potrebbe dire che una delle cose più originali a costituire l’album sia la copertina, due fotografie, giornaliera e notturna, della facciata di un palazzo a New York le cui finestre sono state tagliate via per far posto al nome dell’album (sul fronte) e a immagini dei membri, del manager, della vergine Maria e tanto altro (sul retro). Almeno sarebbe originale se non fosse un’idea strappata direttamente dalla copertina dell’album “Compartments”, di José Feliciano, uscito nel 1973.
Ma dobbiamo dare ai Zeppelin ciò che è dei Zeppelin: negli anni hanno accumulato una maturità musicale fuori dal comune, sarebbe da pazzi dire che non sono stati in grado di rivoluzionare il mondo della musica e, tra l’altro, solo con la musica stessa. Questo sesto album in studio, come già detto, non è un tentativo di raggiungere qualcosa, che sia il successo o la fama, bensì la manifestazione dell’intenzione, l’estro e la bravura dei quattro musicisti, un variegato mosaico di generi, canzoni semplici ma originali accomunate da una sorta di nostalgia. Ten Years gone, nonostante sembri solo una macchia rock/progressive all’interno di un pentolone in cui bollono brani blues, folk, hard-rock, boogie, generi che suonano anche inaspettati alle orecchie di un ascoltatore meno assiduo di questo grande gruppo, forse rappresenta il cuore dell’album. Attraverso la sua melodia e un testo che rimanda a un ricordo amoroso del passato, questo brano esprime la paura dell’ignoto e la nostalgia del vecchio, proprio a metà fra brani che rasentano l’avanguardismo, come In the Light, e brani di gloriosi generi passati, come un boogie-woogie che, in quest’album, sembra quasi come un cavolo a merenda. La cima della montagna ormai i Zeppelin l’hanno raggiunta, con questo album ci si sono stabiliti. Certo non potevano prevedere il declino che di li a 5 anni li avrebbe portati allo scioglimento, a partire dall’incidente di Plant nel 75, per finire con la morte di Bonham nell’80.
“A volte ho la sensazione che non sarei dovuto crescere
Ma quando l’aquila lascia il nido ha una lunga strada da fare”