di Michele Canarino
Avete presente quando vi consigliano qualcosa e voi rimandate e rimandate ancora? Ecco, io lo faccio praticamente sempre. Succede che mi segno anche le serie, i film o i libri che mi vengono consigliati, ma poi mi dimentico e non se ne fa nulla. Marzo, però, è stato il mese dei recuperi.
Per prima cosa ho guardato Westworld, una serie del 2016 prodotta da HBO, che mi è stata consigliata da mio padre. La serie è ambientata in un futuro non definito e parla di un parco divertimenti costruito per gli umani, ma abitato da robot con un’intelligenza artificiale particolarmente sviluppata. Se siete tristi per il mancato rinnovo di Rick e Morty, ve la consiglio vivamente.
Poi ho letto Rap. Una Storia Italiana., scritto dalla bravissima Paola Zukar. La Zukar è il CEO di Big Picture Management, l’agenzia che cura gli interessi di artisti come Fabri Fibra, Marracash e Clementino, ma è prima di tutto una grande conoscitrice della cultura hip-hop. Credo che il suo lavoro sia indirizzato proprio alla generazione dei nati negli anni ’90 e che il messaggio sia che il rap italiano non è sempre stato come lo conosciamo oggi. Mentre negli Stati Uniti i rapper vendevano milioni di dischi, qui in Italia la cultura hip-hop era vista come un fenomeno passeggero, che si sarebbe in qualche modo esaurito di lì a poco. Quando nei primi anni 2000 il rap italiano ha rischiato davvero di scomparire, sono venuti fuori gli artisti che hanno preso il rap e lo hanno fatto diventare un genere affermato anche da noi. Quello che la Zukar cerca di dire, anche ai giovanissimi, è che senza Fabri Fibra non ci sarebbe Fedez, senza Stokka e MadBuddy non ci sarebbe la Dark Polo Gang, senza Dargen D’Amico non ci sarebbe Dutch Nazari. Se le generazioni immediatamente precedenti la nostra non avessero creduto fortemente in una forma di espressione così lontana dalla musica nostrana, forse oggi il rap italiano non esisterebbe. E non ci sarebbe nemmeno Willie Peyote.
Willie Peyote è torinese, il suo vero nome è Guglielmo Bruno ed è figlio di un musicista. Credo di essere arrivato alla sua musica grazie ai suggerimenti di YouTube, il che mi ha portato a scaricare “Educazione Sabauda”, uscito nel 2015. Nel 2017 è invece uscito “La Sindrome di Tôret”, e come spesso mi succede mi sono appuntato e ripromesso di ascoltarlo, ma non l’ho fatto fino a qualche settimana fa. Me l’ha fatto ritrovare quella funzione di Spotify che una volta finito un album fa partire subito una radio con le proposte simili a ciò che stavi ascoltando, anche se non riesco a capire il collegamento con i Crookers. Ad ogni modo, visto e considerato che marzo è stato il mese dei recuperi, ho deciso di ascoltare tutto l’album, e non me ne sono per niente pentito.
“La Sindrome di Tôret” è un lavoro che si inserisce perfettamente nel tempo che stiamo vivendo, per certi versi simile a quello che fu “Le dimensioni del mio Caos” di Caparezza, uscito dieci anni fa. I tratti in comune sono tanti, a partire dal fatto che entrambi sono una sorta di concept album: nel caso di Caparezza c’era una storia ben definita a fare da contorno alla musica, cioè quella di Ilaria, una ragazza che si trova catapultata nel 1968; nel lavoro di Willie Peyote, per sua stessa ammissione, c’è una specie di monologo che ha ad oggetto la libertà di espressione e di pensiero. Inoltre, tutti e due gli album hanno un forte carattere politico, una particolare attenzione per le tematiche sociali più importanti del loro tempo. “Le dimensioni del mio Caos” uscì nel 2008, in piena era berlusconiana, e Caparezza fu uno dei primi autori a cantare di morti bianche, di precariato, di inquinamento e di negazionismo. Willie Peyote fa altrettanto, confrontandosi con il clima sociale e i trend politici di questi anni confusi, parlando di razzismo, della nostalgia dei totalitarismi e della classe politica nostrana.
Willie Peyote fa parte di quella schiera di artisti per i quali è difficile trovare un genere ben definito, come lui stesso cantava in Etichette. “La sindrome di Tôret” è un album scritto da un rapper, prodotto in buona parte da Frank Sativa e Kavah, ma con l’utilizzo di strumentali che si avvicinano più alla scena indipendente che all’attuale scena hip-hop, quasi a volere allontanarsi da un pubblico e da un ambiente che sta cercando sempre di più il guadagno economico e sempre meno la qualità. Per Willie Peyote vale lo stesso discorso già fatto per Dutch Nazari: stiamo parlando di un artista rap, ma ha più affinità con Brunori Sas che con i Club Dogo. Ed è forse per questo motivo che nel suo ultimo lavoro compaiono i featuring di Jolly Mare e di Roy Paci, piuttosto che quelli di Ensi e di Tormento, come accaduto tre anni fa per “Educazione Sabauda”.
De “La sindrome di Tôret” salta subito all’orecchio il riferimento alla stand-up comedy, genere al quale mi sono appassionato anche io negli ultimi tempi. Spesso mi capita di guardare i video di Eddie Izzard o di Ricky Gervais prima di addormentarmi, per cui ho scoperto che tra i tanti nomi stranieri ci sono anche molti comedians italiani di grande spessore, come Pietro Sparacino e Filippo Giardina. La traccia C’Hai Ragione Tu è liberamente ispirata ad un famosissimo sketch di Louis C.K., mentre in 7 Miliardi compare addirittura il comico italiano Giorgio Montanini, tutto questo a conferma del fatto che il tema centrale del disco è la libertà di espressione.
I Tôret sono delle fontane tipiche di Torino, con il rubinetto a forma di toro. Willie Peyote viene dallo stesso posto e se ci fosse bisogno di trovare un aggettivo per la sua musica, io azzarderei un “aggressiva”. C’è della forza nel suo modo di cantare, c’è della potenza nel suo modo di osservare il mondo e di descriverlo, c’è sicuramente una certa aggressività nei suoi live. La sindrome di Tôret è l’evoluzione naturale di un artista che è nato e cresciuto a Torino e ha deciso di tifare Toro e non Juventus, di un antagonista, di uno che concepisce la musica come una forma di espressione, che come tale va intesa e preservata.
Quindi grazie Guglielmo, rapper vero in un mondo di copie.