di Alvise Danesin
Originari di Testaccio, Roma, i John Canoe sono alle prese con il tour di presentazione del nuovo album, “Wave Trap”, disco d’esordio che sta ricevendo diverse recensioni positive e che li sta portando a calcare i palchi delle principali città italiane, e non solo. Tra una data e l’altra abbiamo avuto l’opportunità di fare due chiacchiere al telefono con Jesse Germanò, voce e chitarra del gruppo.
T: Come nascono i John Canoe e quali sono i gruppi che più vi hanno influenzato?
J: Io e Stefano Padoan [voce e batteria] ci siamo incontrati molti anni fa grazie ad amici comuni. Gli ho proposto di suonare assieme alcuni pezzi che avevo in mente, completamente diversi da quello che stiamo facendo ora, e da quel momento abbiamo sempre scritto musica nostra, senza passare per le solite cover. Era la fine degli anni ‘90 ed eravamo in fissa con l’indie rock statunitense: Pixies, Pavement, ecc.; poi c’è stato quel momento in cui mi sono chiuso ad ascoltare solo garage, raccolte Nuggets anni ‘60 e scena surf californiana. È da qui che si sviluppa il nostro suono. Nel primo Ep come John Canoe è ancora possibile ascoltare Matteo Domenichelli [ora bassista nel gruppo che accompagna Giorgio Poi], tuttavia il gruppo nasce con l’arrivo del nuovo bassista, Mario Bruni, conosciuto tramite Davide Caucci [fondatore dell’etichetta Bomba Dischi] che è riuscito nell’impresa di trovare un bassista, per di più bravo.
Quali sono quindi le differenze tra il primo Ep, “Actorboy”, e il nuovo album?
Sicuramente c’è stata un’evoluzione a livello di suoni. L’Ep è più che altro una raccolta di ciò che avevamo prodotto fino a quel momento, riarrangiata in chiave “surf”. A differenza dell’Ep, i pezzi dell’album li sentiamo senza dubbio più nostri. In entrambi i lavori le registrazioni e i missaggi li ho fatti personalmente e, per quanto riguarda l’album, ho avuto il supporto del fonico e produttore Filippo Strang [Santa Muerte, Sonic Jesus] che ci ha aiutati ad andare verso dei suoni più distorti e lo-fi: volevamo mantenere quell’idea americana e underground. Oltre a ciò, non bisogna dimenticare che c’è stato anche lo zampino di Marco Fasolo.
Marco Fasolo, frontman e anima dei Jennifer Gentle. Come nasce questa collaborazione e come ha contribuito ai fini della realizzazione di “Wave Trap”?
La collaborazione con Marco non è una assoluta novità. Io mi sono sempre tenuto molto in contatto con lui: ascoltando le sue produzioni, facendogli sentire i pezzi e lavorando assieme ad alcuni progetti. È una persona fantastica, forse un po’ eclettica, senza dubbio un guru della psichedelia. Registrare il disco insieme, come avremmo voluto, sarebbe stato troppo dispendioso a livello economico ma abbiamo comunque insistito perché fosse lui a dare un ultimo giudizio sui pezzi prima di registrare. Abbiamo quindi passato una settimana insieme e, grazie al suo contributo nella pre-produzione, siamo riusciti a rendere più concreti i suoni che avevamo in testa e a dare un senso logico e strutturale ai pezzi. Perché noi sostanzialmente siamo animali da palco: suoniamo e spacchiamo tutto e basta. Ci ha dato ordine.
Secondo voi con “Wave Trap” avete raggiunto una maturità e un suono tale da poter essere ancora sviluppato, oppure l’idea per un lavoro futuro è quella di esplorare nuovi orizzonti sonori?
Anche se questo è il nostro primo disco sentiamo di aver raggiunto una certa maturità sonora, che non vuol dire “essere arrivati”, ma siamo molto contenti del prodotto finale e pensiamo di aver scritto dei pezzi che possono avere un valore. Per quanto riguarda un lavoro futuro ti posso dire che qualche idea già c’è, ma niente di concreto. Stiamo cercando ancora di capire dove riusciamo a dare il meglio di noi stessi e quali sono i pezzi che più funzionano. La linea generale tuttavia rimarrà sempre questa, è la nostra idea di musica. Ci sarà sicuramente spazio per nuove influenze però abbiamo scelto questo percorso e pensiamo ci sia la possibilità di svilupparlo ulteriormente. Per di più, a mio parere puramente personale, in questo disco ci sono pezzi molto differenti tra loro, per cui questo ci dà l’opportunità di poter spaziare molto anche nei prossimi lavori. È il bello di “Wave Trap”, secondo me. [ride]
Il tour per la presentazione del disco è ormai avviato e tra le tante date tornerete per la seconda volta al Sziget Festival a Budapest.
Sì, abbiamo molte date già fissate e molte spero arriveranno. Anche quest’anno abbiamo la fortuna di poter suonare ad un festival importante come il Sziget e speriamo che questa volta sia quella buona perché, nonostante ci siamo divertiti lo stesso, l’anno scorso la pioggia è stata un po’ proibitiva.
Cambiando discorso. Mi piacerebbe sapere, in generale, cosa ne pensi del panorama italiano in questo momento?
[ride] Del panorama italiano posso dire che non tutto quello che ho ascoltato mi piace, non voglio entrare però nel dettaglio. Quello che tuttavia mi piace è il fatto che in questi ultimi anni ci sia stata quasi una rivoluzione: gli artisti piccoli collaborano con i grandi, artisti medi diventano enormi, sold-out al primo concerto. Sono cose che qualche anno fa erano impensabili, ora invece stanno accadendo. Le possibilità e le iniziative sono cresciute tantissimo e la voglia di sentire musica nuova è senz’altro aumentata. Non ci sono più gli ascoltatori di nicchia ma, bene o male, ci stiamo tutti avvicinando ad un gusto comune. La scena italiana sta producendo molto o noi stiamo ascoltando di più, probabilmente entrambe le cose. Tutto questo è molto bello.
Qualche giorno fa è uscito un articolo in cui si dichiara che il cantante Cambogia è in realtà un prodotto studiato a tavolino per criticare il modo con cui, attraverso l’hype e la pubblicità, vengono alimentati artisti di dubbia qualità. Cosa ne pensi?
Premetto che Cambogia non lo conosco molto. Il fatto di usare i social e la pubblicità per attirare l’attenzione del pubblico però non è certamente una novità, è normale per chi aspira a farsi conoscere. Questo tuttavia non è indice di cattiva musica: l’hype ti può aiutare ad avere quella spinta necessaria per emergere ma se il prodotto poi fa schifo non è detto che farai sold-out al primo concerto.
Per concludere ti chiedo un artista italiano e uno straniero che ti piacciono e che ti va di segnalarci.
Di artisti italiani direi sicuramente Giorgio Poi che secondo me ha un grande valore artistico e musicale: riesce a trasmettere le proprie idee con purezza e genuinità. Mentre a livello internazionale non saprei proprio, sono troppi [ride]. Diciamo Ty Segall.