Diego Castelli: Lunga vita alle serie TV


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di Alvise Danesin
Illustrazione di Thomas Borrely

Ormai ne sentiamo parlare tutti i giorni. Le citiamo ad ogni buona occasione. Ci hanno fatto compagnia durante le varie zone rosse e hanno provato, e provano ancora, ad alleviare il senso di reclusione da coprifuoco. Oggi più che mai le serie TV si sono insinuate nelle nostre vite, diventando parte attiva del nostro quotidiano. Per il tema Serie di Talassa ho quindi deciso di fare alcune domande ad un esperto in materia: Diego Castelli, channel manager per Mediaset e co-fondatore di Serial Minds, “un sito episodico che si occupa di cose a episodi e lo fa con i suoi tempi e i suoi modi”.

Chi è Diego Castelli e di cosa si occupa nella vita?

Sono ormai 10 anni che insieme al mio socio Marco Villa ho fondato e scrivo su questo sito, Serial Minds. La cosa è nata in modo del tutto amatoriale – lo è ancora, ma nel corso del tempo siamo riusciti a raggiungere un po’ di persone – però tra le varie cose abbiamo scritto un libro di recente, iniziato a creare dei podcast e delle dirette su Twitch. Un bel progetto che rimane comunque principalmente un hobby. 

Per il resto, il mio lavoro è a Mediaset, dove sono ormai da 13 anni. Ci sono arrivato poco dopo l’università. Ho fatto la IULM in televisione/cinema, poi un anno e mezzo di stage in una rivista che parlava di telefilm, dove in sostanza facevo quello che faccio ora con il sito di Serial Minds. Dopo quell’esperienza, nel 2008, giusto pre-crisi, ho visto che Mediaset cercava personale: io ho mandato il CV e mi hanno preso. Ho collaborato per cinque anni nella redazione cinema di Rete4, poi sono passato a fare il Channel Manager di Iris, a cui nel tempo si sono aggiunti Canale 20 e Cine34. Il mio lavoro ufficiale quindi è occuparmi del palinsesto per questi canali.


“Serial Moments – I 20 anni che hanno cambiato la tv”, Diego Castelli-Marco Villa, UTET Università, 2020

“Serial Moments – I 20 anni che hanno cambiato la tv”, Diego Castelli-Marco Villa, UTET Università, 2020

Cos’è invece Serial Minds? Come e quando nasce questo progetto?

Come dicevo, Serial Minds è nato esclusivamente come diletto. Io e Marco eravamo compagni di università e ci siamo laureati insieme nel 2006. Quattro anni dopo, lui arriva e mi dice dal nulla “senti, perché non apriamo un blog di serie TV? Lo facciamo esclusivamente come sito per i nostri conoscenti e scriviamo quando e come ci va.” Quindi troviamo il titolo e cominciamo a scrivere. La prima volta che arriva qualcuno che non conosci e ti dice “che bella questa cosa” oppure “che bello questo sito” tu ti ringalluzzisci e passi dal voler scrivere ogni tanto allo scrivere il più possibile. Così siamo andati avanti per tanto tempo e solo di recente abbiamo cominciato ad inserire altri elementi, come il podcast o le dirette di Twitch.

Per quanto poi il sito avesse seguito, non abbiamo mai pensato di espandere il progetto ad altre persone, anche solo per farci aiutare. Abbiamo sempre voluto che fosse una cosa personale, realizzata con il nostro personale modo di scrivere ed esclusivamente i nostri nomi sugli articoli. Non ci andava di allargare gli autori del sito solamente per aumentare la quantità degli articoli. 

E nonostante questo si è creata una bella community attiva attorno al progetto.

Sì, niente di troppo grande, ma sono molto contento anche del fatto che, per ora, sia abbastanza sana: non sono mai arrivati commenti particolarmente poco educati, forse qualche caso isolato, ma nel complesso ci si accapiglia educatamente.
Ci sono state occasioni in cui abbiamo beccato il giro giusto di Google e alcune persone sono arrivate al sito tramite la serie. È successo per esempio con Vikings: la prima recensione fu negativa da parte del mio socio e in quell’occasione arrivò un sacco di gente ad insultarlo. A me è capitato con Warrior Nun di Netflix, una cosa inguardabile, e un po’ di gente è arrivata molto agguerrita. Chi ci conosce invece sa che non siamo polemici ma che stiamo solo dando la nostra opinione. 

Con quale serie TV sei stato “svezzato”? Con quale invece avresti voluto cominciare?

Forse non so rispondere a nessuna delle due domande (ride). 
Per la prima domanda dobbiamo andare molto indietro. Ho cominciato da bambino a guardare la TV e, tralasciando i cartoni animati, penso che i primi ricordi un po’ confusi siano legati a Supercar, i Robinson, Hazzard e tutti quei programmi che potrebbero essere ricondotti alla Mediaset anni ‘80. Dai primi anni ’90 invece ho cominciato a guardare le serie con un po’ più di attenzione. Ricordo sicuramente Baywatch, che si faceva guardare per più motivi, oltre a quello artistico. Quel minimo di coscienza nell’avere l’appuntamento fisso l’ho avuta in quegli anni lì, ma ora non vorrei che scrivessi che ho cominciato con Baywatch (ride). Potrei dire Hercules, oppure Beverly Hills 90210 e le altre serie che andavano in onda di mattina.

Tra queste che ti ho nominato, penso che Supercar sia la serie con cui avrei voluto cominciare, per un motivo in particolare: io detesto tutte le serie, i film, i videogiochi che hanno specificamente a che fare con le auto. Il mio interesse per le automobili è nullo, invece Supercar mi piace.

Esce una nuova serie: come vi avvicinate per poterne poi scrivere? Vi informate il più possibile o aspettate di cominciare evitando influenze esterne?

A me piacerebbe arrivarci completamente ignorante. Cerco di non andare a leggere cose prima di aver visto, molto spesso però è inevitabile. Soprattutto ora che facciamo anche il podcast, devo cercare di seguire il più possibile anche le news, cosa che prima non avevamo mai fatto. Di base però mi piacerebbe saperne il meno possibile, anche se non è semplice: tra promo in TV o in rete si finisce sempre per avere più o meno una vaga idea di cosa sarà. Devo dire però che fortunatamente con le serie non c’è lo stesso problema che c’è con i film, in cui il trailer, molto spesso, spoilera tutta la trama.

Una volta vista la serie cerco invece di leggere anche altre opinioni. Quando si legge la recensione di un’altra persone è più semplice che ti dia degli spunti per pensare diversamente, oppure semplicemente la si può citare. La cosa migliore da fare sarebbe guardare la serie, scrivere e prima di pubblicare leggere un paio di articoli scritti da altri, però non sempre si ha il tempo di farlo. Io faccio così soprattutto con le serie grosse, Per esempio, domani esce la recensione di Mare of Easttown, nuova serie con Kate Winslet, e dopo averla vista e averne scritto sono andato a farmi un giro su Rotten Tomatoes per vedere se anche ad altri era piaciuta o meno. Quando mi piace qualcosa e in giro vedo e leggo solo recensioni negative, o viceversa, mi pongo qualche domandina (ride), o perlomeno cerco di scriverlo proprio nell’articolo.

Ormai avete superato i 10 anni di attività: com’è cambiato il vostro approccio alle serie TV nel corso di questi anni?

Sicuramente mi vedo un po’ cambiato in questi 10 anni. Ci sono delle serie che faccio più fatica a vedere perché più distanti dal target di pubblico della mia età. Per esempio, i teen drama a 28 anni riuscivo a vederli con più facilità rispetto ad ora che sono alla soglia dei 40. Non tanto perché non reggo i teen drama, ma perché ne ho visti veramente tanti e i teen drama sono una delle cose che più di altri generi tende a ripetersi, quindi finisci per vedere sempre la stessa cosa.

In generale, vedo molte più serie di quelle che vedevo prima e di quelle che vedrei se Serial Minds non esistesse. Perciò, ora è più facile che una serie nuova mi faccia dire “va beh ma sta roba qui l’ho già vista 4 volte”. Penso sia un percorso professionale normale per chi si occupa di critica: se vedi miliardi di film, è probabile che ti sembrino tutti uguali e l’entusiasmo lo spendi solamente per qualcosa di veramente innovativo. Come è normale che chi di film ne vede pochi, possa entusiasmarsi per un film di cui tu hai visto già cinque versioni diverse. Quindi se ne parli male pensano che tu sia snob. Ma non è che sono snob: è solo che se anche tu avessi visto le altre quattro versioni precedenti, anche tu alla fine diresti che è un po’ derivativo.

Un altro aspetto che poi ho notato con l’avanzare degli anni, e che avevo già notato quando scrivevo per una rivista di cinema, è che adesso fatico a guardare una serie nuova senza pensare dai primissimi minuti a cosa vorrei scrivere. Dopo cinque minuti cominci già a pensare “ecco, dovrò scrivere di questo…”. Infatti mi piace quando so che la recensione di una serie che aspetto la farà il Villa: mi sento più rilassato. Ma credo sia normale.


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Sia tu che Marco lavorate o avete lavorato per la TV italiana, oltre che essere esperti di serie. È una mia percezione o le serie/fiction italiane faticano un po’ ad essere credibili? Parlo soprattutto delle produzione Rai, ma non solo, in cui il sospetto è sempre quello di puntare sulla quantità piuttosto che sulla qualità.

In realtà credo sia solo una percezione che hai tu e che abbiamo noi di una certa età abituati ad un certo tipo di prodotto. La fiction Rai, nel complesso, non è una brutta fiction. È chiaramente una fiction da TV generalista in un paese in cui il primo canale pubblico è guardato da un pubblico molto anziano, più anziano di quello che può essere il pubblico della TV pubblica americana, per esempio. Nel momento in cui sei guardato da un pubblico molto anziano, e quello è il tuo target di riferimento, tu fai Don Matteo. E se vuoi puntare su qualcosa di leggermente più sperimentale, la metti su Rai 2 e fai Rocco Schiavone, per esempio. È tutta una questione di target: la fiction Rai ha prodotto anche molte cose ispirate alla vita reale di artisti o politici che tutto sommato come racconti popolari funzionano. 

Il tema è che noi siamo una generazione venuta su con la serie TV americana, il che vuol dire un approccio completamente diverso alla narrazione. Continuando a guardare quel tipo di prodotto e cercando sempre qualcosa di nuovo e più “alto” si arriva a produzioni che non sono “rassicuranti” o fatte nel modo che già conosci, produzioni che provano a porti una sfida intellettuale ed emotiva. Cosa che tendenzialmente la fiction Rai non fa perché se no gli muore il pubblico d’infarto. Inevitabilmente quindi questo tipo di prodotto ci risulta vecchio, lento, banale, ma è solo questione di target. Ci sono invece esempi di produzioni italiane non fatte dalla TV tradizionale che sono più simili a quello che piace a noi, penso a Gomorra o Skam. Ma questo tipo di prodotto è troppo pensante per passare sia sulla Rai che su Mediaset. In questo senso Mediaset, che ha un target più vicino a quello delle piattaforme, di fiction ne produce meno. 

Parlando di produzione italiana, non posso che chiederti cosa ti aspetti dalla nuova stagione di Boris.

Non lo so. Boris mi era piaciuto tantissimo, proprio tanto. Ho un po’ paura della quarta stagione. È un’operazione rischiosa andare a toccare qualcosa che era ormai conclusa e tra l’altro già il film non era stato fenomenale. Se fossi nella produzione mi chiederei “siamo sicuri che così non roviniamo il giocattolino?”. Boris era una bella serie, capace di costruirsi una sorta di aura mitica che, secondo me, fa sì che ce la ricordiamo ancora più bella di quello che è effettivamente. Arriviamo alla quarta stagione di Boris con un’aspettativa che le prime stagioni non avevano neanche per sbaglio, quindi è facilissimo scazzare. È vero anche che sono passati molti anni e recuperare i personaggi per capire che fine hanno fatto potrebbe essere carino. Il timore rimane: aspettiamo con ansia e la guarderemo appena uscirà. 

La qualità delle serie proposte è un tema centrale anche per quanto riguarda il mondo delle piattaforme streaming: i servizi streaming, e in particolare Netflix, sembra abbiano abbandonato un po’ la qualità delle proposte originali per una maggiore quantità, sbaglio?

In realtà credo ci sia da fare un discorso un po’ diverso. Prendiamo come esempio Netflix. I primi prodotti di Netflix, e la prima serie originale è stata House of Cards, servivano alla piattaforma per farsi notare e dire “guardate cosa ho io e voi non avete”. Poi, per un certo periodo, il livello delle produzioni è rimasto molto alto; livello alto sempre per un certo tipo di pubblico. Poi ha cominciato a seguire una strategia che gli altri canali di streaming (Amazon, Apple) non condividono e che si basa sulla quantità. Non è però che Netflix ha cominciato a fare cose più brutte: ha cominciato a produrre qualunque cosa. Quindi se prima c’erano 10 serie nuove all’anno, di cui nove erano belle, ora nove serie belle all’anno ci sono ancora, ma su un totale di 50. Probabilmente Netflix sta seguendo lo stesso percorso di Rai 1, cioè offrire molte serie leggere e rassicuranti. Questo per due motivi principalmente: perché hanno un desiderio di espansione globale e perché, rispetto ad Amazon ed Apple, fanno solo quello, non hanno altri core business.

Quindi Netflix punta ad avere tutti gli abbonati possibili e immaginabili. Per questo tira fuori gli anime, gli show per bambini, le serie stupidone, le sitcom, i drama di alto profilo. In mezzo ci puoi trovare anche La Regina di Scacchi, che è una bella serie, oppure The Crown, che è un capolavoro, però te le devi andare a cercare con più attenzione. Se guardi la classifica delle 10 serie più viste di Netflix, otto fan schifo. Ed è anche giusto che sia così, vuol dire che la strategia sta funzionando perché la stragrande maggioranza degli utenti, che probabilmente sono al loro primo approccio con una piattaforma di streaming a pagamento, vogliono e guardano quella roba lì. Poi alcune sono solo brutte. Inoltre secondo me Netflix ha un problema con le sitcom di stampo classico: non è riuscita a sfondare con nessuna.

Una cosa interessante riguarda la durata degli episodi. Esiste un format perfetto per il nostro tempo e come si evolverà questa cosa in futuro? Esempio: c’è Special, una serie di Netflix i cui episodi durano appena 15 minuti, mentre un episodio di Breaking Bad dura circa un’ora. Avete affrontato l’argomento anche in una delle prime puntate del podcast in cui si parlava di Quibi. Come sta andando la piattaforma?

È vero che io e il Villa ci scherziamo spesso su questa cosa perché, guardandone tante, ci fa sempre molto piacere se durano poco. In generale il tempo è sempre stato quello prestabilito dal genere: le comedy sono brevi e i drama sono lunghi; le puntate delle sitcom durano 20 minuti e quelle dei drama 41 minuti circa. Devo dire che poi ultimamente rimango infastidito quando apro una puntata e vedo 58 minuti: mi viene un pochino di ansia, devo essere sincero. Credo però sia dovuto al fatto che ne vedo veramente tante. 

Detto questo, credo che non ci sia una durata dettata dallo stile di vita, per lo meno non ancora. L’autore di una serie, soprattutto per quanto riguarda le piattaforme di streaming che non sono legate ad un palinsesto, dovrebbe essere in grado di capire qual è il tempo ottimale per una puntata della serie che sta scrivendo. Mi ha fatto molto piacere che le piattaforme di streaming lascino la libertà di poter variare la lunghezza degli episodi in base alla serie e probabilmente alle richieste degli autori. Poi c’è gente che non è in grado di fare storie appassionanti di 20 minuti e c’è gente che riesce a raccontare storie super appassionanti di 52. L’aspetto mentale conta molto: mi risulta più semplice vedere 8 episodi da 30 minuti che quattro da un’ora.

A Quibi gli è andata molto di sfiga. Avevano pensato a questo format, anche molto intrigante per un certo aspetto, palesemente pensato per la gente che andava in giro e se la vedeva in metropolitana, e si son beccati la pandemia. A quel punto non aveva più senso vedere quella roba lì. Io personalmente avevo fatto i tre mesi gratis e seguito tutte le loro serie. Però mi metteva parecchia ansia: non potevi saltare un giorno che già rimanevi indietro di una puntata a serie. Seguivo quattro serie e dopo due giorni già avevo otto episodi da vedere. Poi non sempre il lavoro di messa in scena era fatto bene e la visualizzazione verticale/orizzontale su smartphone non era sempre ottimizzata.

Ormai abbiamo la possibilità di scegliere tra una quantità enorme di serie che affrontano i temi più disparati e ambientate negli universi più vari. C’è una serie che ancora manca?

Assolutamente Harry Potter. Probabilmente, quando si decideranno a fare una serie su Harry Potter sarà sicuramente un prequel/sequel. La verità è che i libri di Harry Potter dovrebbero essere serie TV. A me i film non piacciono particolarmente, li ho visti prima di leggere i libri, perché quando sono usciti ero già grandicello e i libri pensavo fossero per bambini. I film mi hanno sempre trasmesso qualcosa di incompiuto e quando ho letto i libri ho capito cosa mancava: il senso della quotidianità della scuola, molto presente nei libri. I libri di Harry Potter sono fatti per essere sette stagioni di una serie con andamento scolastico – potrebbe per esempio iniziare ad ottobre e finire a maggio. Attualmente l’immagine di Harry Potter è ancora legata agli attori della saga e, nonostante i film abbiano lasciato un’impronta molto forte, il primo ormai è di vent’anni fa. Oggi inoltre con gli effetti speciali che abbiamo verrebbe fuori qualcosa di ancora migliore rispetto ai film. La serie arriverà, è l’unica cosa che manca.

Ti aspetti una serie sulla situazione attuale?

In realtà c’è qualcosa al riguardo, la pandemia è già entrata in alcune serie esistenti. Per esempio in Grey’s Anatomy ormai è una stagione intera che è riportata la situazione attuale con molta precisione. Anche in New Amsterdam. Ma anche serie insospettabili come Pappa e Ciccia, che adesso è diventata The Conners, fanno le loro cose normalmente, ma quando girano per strada hanno la mascherina. Il vissuto quotidiano della pandemia è entrato ormai anche nelle serie e sarebbe stato sciocco non farlo. Sono stati realizzati tanti episodi speciali sul tema e anche serie: prendi Staged, con Michael Sheen e David Tennant, che è praticamente tutta ambientata su Zoom ed è forse la più riuscita in questo senso.

In generale, non credo serva una serie sulla pandemia, perché la pandemia è sostanzialmente gente che sta a casa e qualcuno che purtroppo muore, ma non ci sono dietrologie affascinanti. A meno che tu non voglia fare la serie complottista con i laboratori cinesi, ma adesso credo sia ancora presto in ogni caso.

Cosa uccide una serie TV? La lunghezza, la storia poco appassionante, una brutta recitazione…

Di solito capita quando ti accorgi che non c’è più un’idea di sviluppo, ma semplicemente che continua a ripetersi. Prendiamo l’esempio di The Walking Dead: dopo Negan, si ripete all’infinito questa cosa che loro si menano con altri tizi e ci sono gli zombie. Poi ci sono serie che reggono di più questo aspetto, come le serie crime verticali, una su tutte CSI, che è stata conclusa non perché era calata in maniera vertiginosa la qualità, ma perché magari l’attore voleva fare altro o gli ascolti sono calati. Penso anche a 24, serie di grande impatto su cui sono state fatte otto stagioni, in cui dopo un po’ non riuscivi più ad essere stupito. È più facile che reggano bene le sitcom in quanto hanno meno bisogno dello sviluppo dei personaggi e vivono di sketch e di una visione più leggera. Penso ad esempio a The Big Bang Theory in cui hanno fatto 10 stagioni, di cui alcune di qualità abbastanza bassa, ma comunque gradevole.

Solitamente le serie che durano tanto e che non stufano sono quelle in cui, già dall’inizio, sai già quanto devono durare. Breaking Bad: loro sapevano dall’inizio quanto sarebbe dovuta durare, stessa cosa per Mad Men e Sons of Anarchy. Il problema sono le serie dove parti e non sai quanto durerà e, ad un certo punto, devi tirare a campare solamente perché il network ti dà i soldi per farlo. Le serie muoiono quando finiscono le idee, ma devi andare avanti lo stesso. 

Il tuo guilty pleasure?

Se guardiamo alla narrativa di Serial Minds, il mio guilty pleasure che tutti conoscono è Vampire Diaries, anche se lì siamo andati un po’ oltre al realismo (ride). Comunque effettivamente l’ho seguito sapendo che era un serie “giovane e facilotta”, però mi piaceva e sono arrivato alla fine. Da quando c’è Serial Minds avere un guilty pleasure è diventato molto difficile: guardare qualcosa sapendo che non ne parlerò mai è praticamente impossibile per questioni di tempo.

Il mio vero guilty pleasure è comunque da sempre Grey’s Anatomy. Lo seguo da 17 anni e non lo mollerò mai: non accetto che possa finire senza che io sia lì a vedere il finale. È evidente che sia una serie di cui ormai mi importa poco e se la chiudessero domani andrebbe bene uguale. All’inizio però era tutt’altro che una serie brutta, era una serie rilevante con uno stile ben preciso.

È stata anche lei ammazzata dalla ripetitività.

Mamma mia, sì!

Cosa ne pensi del fenomeno del politically correct? Pensi che andare a modificare o cancellare puntate di serie TV “classiche” abbia senso?

Qui il tema è grosso. Negli ultimi anni, a partire dal fenomeno del #metoo, quindi 2017 circa, è venuto fuori un certo entusiasmo attivista, o attivismo entusiasta, su due o tre temi principali: donne, neri e rappresentazioni di alcune minoranze specifiche. Il fatto che sia venuto fuori è ovviamente solo positivo, così come lo è l’inclusività: c’erano delle storture sia in fatto di rappresentazione sullo schermo sia di problemi dietro le quinte. Quindi che arrivi in superficie anche nelle serie TV mi pare una cosa molto buona.

C’è però il discorso che comunque questa del politically correct è una questione umana, fatta da essere umani, e come tutte le cose fatte dagli essere umani, soprattutto se fatte da tanti, è perfettibile. Ci sono degli elementi che a me fanno sorridere. Prendiamo un esempio: il fatto che si debba scusarsi per una blackface in Scrubs, quando lo sketch non è a detrimento dei neri ma, anzi, è per prendere in giro i bianchi che fanno quel tipo di cose. È evidente che non ci sia un solo nero che si sia offeso per quella roba lì. Così come mi fa ridere quasi tutta la questione dei doppiatori.

Un caso leggermente diverso potrebbe essere quello di Hank Azaria, che doppiava Apu nei Simpson, anche se da quello che ricordo è sempre stato più ridicolo Homer che non Apu, il quale doveva avere a che fare con la stupidità dell’americano medio. Già quando però Allison Brie si scusa per aver doppiato un personaggio vietnamita in Bojack Horseman è una cosa completamente priva di senso. Il personaggio che lei interpreta non aveva accenti ed era un personaggio positivo, con delle problematiche da essere umano, non da vietnamita. Se avessero avuto un’attrice vietnamita famosa a disposizione probabilmente avrebbero scelto lei. Inoltre a questo punto, prendersela per questa cosa vorrebbe dire anche sollevare il problema inverso: se determinate minoranze possono essere interpretate solamente da quelle stesse minoranze, inevitabilmente poi loro potranno fare solo quello e basta. Qui si va un po’ oltre. Alcuni attori infatti si sono distaccati da questo concetto, come Jim Parsons, protagonista di The Big Bang Theory che è dichiaratamente gay. Lui ha sempre detto che non ne vuole sapere di questo discorso e spesso parla di come gli sia sempre piaciuto il film Brokeback Mountain, in cui ci sono due attori etero che interpretano due personaggi gay. Quindi se un attore è adatto ad un ruolo, non è necessario che si guardi all’orientamento sessuale o al colore della pelle perché possa interpretarlo. 

Ci sta che ci siano degli inciampi durante il percorso se poi portano ad un sano dibattito, ma questi inciampi non devono cadere nel ridicolo e dare modo a persone che la pensano in maniera contorta di poter controbattere con osservazioni anche giustificate.


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Invece che pensi del riadattamento di cartoni animati/anime in serie live action?

Per me ha tutto senso. Raramente questiono le cose a prescindere, soprattutto quando si sente dire “basta con questo remake”, quando è molto probabile che il film che loro hanno visto in origine sia anch’esso un remake. Le storie tornano. È vero che negli ultimi anni il tema della nostalgia funziona molto bene ed effettivamente abbiamo visto riprendere cose già viste, però non mi faccio problemi.

Non sono un esperto di anime, ne ho guardato la mia quota, ma ora non li seguo molto. Secondo me però una serie o funziona o non funziona, a prescindere da dove sia tratta. Ovviamente la percezione personale distorce sempre la visione, ma la qualità rimane comunque a prescindere.

Quanto incide oggi il ruolo degli spettatori nelle serie? Ad esempio, la reazione del pubblico a un personaggio quanto può influenzare future stagioni della serie stessa?

Il fatto di dare importanza ai dati di ascolto c’è sempre stata. Si sono sempre fatti i focus group e i sondaggi per vedere, soprattutto su un racconto seriale, cosa fare nella stagione successiva e capire quale fossero i personaggi più amati. Prima di ammazzare uno dei personaggi più apprezzati ovviamente ci pensi due volte, a meno che non sia il cuore dello show come in Game of Thrones. Se guardi invece una serie come The Walking Dead, dove già da subito si sapeva che Daryl era una dei personaggi più amati della serie, non solo sai già che non morirà mai, ma che ci stanno pure facendo uno spin off. Con l’avvento delle tecnologie semplicemente è diventato molto più semplice ricevere questi feedback. Basta andare su un social o su un forum o su Google Trends per capire quante volte si parla di un certo personaggio.

Domanda d’obbligo, per concludere, che mi piacerebbe dividere in due parti: quali sono le serie mainstream che più ti hanno segnato? Mentre quelle “di nicchia” che ti sono piaciute di più?

Te ne dico due: Dawson’s Creek, perché è il mio teen drama preferito e quando è uscito era realmente la serie diversa che mi ha veramente segnato, e poi Lost, che è il vero grande spartiacque. Dico Lost non solo per l’impronta che ha dato a tantissime serie successive, ma per il fatto che in Italia ha cambiato del tutto il modo di star dietro alle serie TV. È stata la prima serie che abbiamo cominciato a scaricare selvaggiamente perché non era pensabile vederla tre mesi dopo gli Stati Uniti quando l’internet si sarebbe riempito di spoiler. Netflix, e tutte le altre cose simili, vengono dalla nostra ossessione per Lost

Per quanto riguarda la secondo domanda ti dico Breaking Bad. All’inizio era una serie di nicchia che io ho avuto la fortuna di seguire da subito e ho visto come poi è diventata enorme. All’inizio vinceva già i premi ma non la vedevano in tanti. Poi Netflix America ha comprato le prime tre stagioni e lì è esplosa. Un’altra serie potrebbe essere Community, comedy con un grande slancio creativo e, potrei azzardare, con uno sguardo post moderno: il fatto di avere un sacco di puntate tematiche in cui fai la parodia di generi di altre serie TV prevedeva in anticipo, perché stiamo comunque parlando del 2009, questo sentimento della nostalgia o comunque si rivolgeva ad un pubblico che ne sapeva a pacchi, quindi la serie sapeva di poter mettere in scena determinati sketch considerano che il pubblico li avrebbe colti.


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