Ottavia Belli: Sfusitalia è la mappa dei negozi alla spina


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di Gerardo Russo
Illustrazione di Thomas Borrely

Ottavia Belli è la fondatrice di Sfusitalia, il motore di ricerca italiano per trovare i negozi alla spina più vicini. Il progetto di Ottavia deriva dalla sua passione per l’ambiente, nata in famiglia tra Permacultura e viaggi naturalistici. Ottavia è laureata in Cooperazione Internazionale e Sviluppo, oltre ad essere appassionata di ripristino di ecosistemi. Al momento frequenta un master in Ambiente, Politiche e Sviluppo a Londra.

Immagina di dover spiegare Sfusitalia a qualcuno che non conosci e che non sa minimamente di cosa ti occupi. Che parole useresti?

La nostra frase identificativa è che Sfusitalia è il motore di ricerca per trovare i negozi che vendono prodotti sfusi. Una piattaforma che, attraverso l’utilizzo di una mappa, dà agli utenti la possibilità di trovare più facilmente negozi che vendono prodotti dal ridotto impatto ambientale.

Come sei arrivata a concepire questa piattaforma? Da dove nasce l’idea?

Nasce per esigenze personali. Un paio di anni fa ho scoperto i negozi sfusi e li cercavo a Roma, dove vivo. La ricerca non è stato però facile e ho deciso di fare ricorso a uno strumento appreso durante un corso di rigenerazione urbana, cioè la capacità di saper mappare. Ho creato così una mappa dei negozi sfusi di Roma che utilizzavo per le mie esigenze. Ho parlato poi della cosa con un’amica di Milano che mi ha chiesto di replicare la mappa per la sua città. Quando poi la richiesta è arrivata anche da un’amica di Torino ho deciso di crearne una per tutta Italia e di renderla pubblica. Da qui l’idea di Sfusitalia, creare cioè un sito di informazione e non solo di mappatura.


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Ti sei inventata un lavoro.

Esattamente. Sono laureata in Cooperazione Internazionale e Sviluppo, mentre adesso sto seguendo un master in Politiche Ambientali, ma è da una vita che cerco un modo per dare il mio contributo nei confronti di quello che sta succedendo nel mondo. Non riuscivo a trovare un modo per fare la mia parte. Cercavo un progetto che potessi gestire da sola, con il massimo impatto dal punto di vista ambientale. I social e internet mi hanno poi aiutata molto a realizzare Sfusitalia.

Talmente utile da chiedersi perché non esistesse già.

Sì, in particolare lo strumento della mappatura può essere utilizzato per tantissime cose, seppur sia poco conosciuto. Il vero incipit di Sfusitalia è stato l’esame di cartografia all’università. Esistono mappe di ogni genere, anche le più buffe, ma sono soprattutto uno strumento informativo molto potente. Ad esempio l’associazione romana CDCA – Centro Documentazione Conflitti Ambientali ha mappato su un atlante tutti i conflitti ambientali mondiali, categorizzandoli per tipologia.

Come hai organizzato Sfusitalia? Che prodotti puoi trovare sul sito?

Ho selezionato i prodotti in base alla maggior quantità di rifiuti ad essi correlati, cioè gli imballaggi. Ad esempio gli imballaggi dei croccantini per il gatto o della lettiera hanno un impatto elevato, poiché sono fatti in plastiche molto spesse. Ci sono poi categorie di negozi in cui il concetto di sfuso non è niente di nuovo, pensiamo alle erboristerie.

Come si struttura la piattaforma dal punto di vista gestionale? Che prospettive di crescita immagini poi in futuro?

Al momento Sfusitalia si basa sul mio lavoro volontario. Ho un’amica che mi aiuta per alcune cose burocratiche. Non ho un social media manager e ho imparato a usare Instagram con Sfusitalia, poiché prima non lo usavo. Ci sono poi tanti progetti per il futuro potenzialmente avviabili, tante idee, tante cose in cui si cerca di fare ordine. Arriveranno delle novità prossimamente.

Avere l’ambiente così a cuore può portare a scelte di vita forti o comunque a dei sacrifici?

La mia filosofia è ridurre il più possibile i consumi che portano a dei rifiuti. Per me è un successo liberarmi di qualcosa. Quando non ci sono state alternative ho preso più volte l’aereo, per il fatto di studiare a Londra e dovendo tornare a Roma per motivi familiari. Al di là di questo, vivo senza la preoccupazione di pensare a un’alternativa in termini di organizzazione di uno spostamento. Prima l’idea di prendere un treno per arrivare a Bari mi pesava, non vivevo con serenità la lunghezza del viaggio. Un po’ alla volta si impara però a riprendersi quel tempo, a riappropriarsi delle distanze, anche con la creatività. Recuperare il tempo di uno spostamento diventa così il contrario di un peso. Si vive proprio un’esperienza. Noi siamo abituati a essere in due ore a mezza a Londra, che però è un luogo, una cultura e un clima completamente diverso. Corriamo il rischio di non percepire questa diversità. Vivendo a impatto ridotto si ha invece modo di lasciar riprendere a tutto il proprio spazio.

Un’indagine di Federconsumatori del 2014 stimava in 800 euro all’anno il costo degli imballaggi per una famiglia italiana. Come si è arrivati a questo paradosso? Tutti sono disponibili a sostenere questo costo?

Noi siamo una specie molto intelligente, ma dimentichiamo in fretta. Non ricordiamo com’era prima che esistessero gli imballaggi e non riflettiamo sul perché esistono. Manca un po’ di memoria storica forse, che magari hanno ancora i settantenni, nati in un periodo in cui si acquistavano i prodotti al peso. Oggi è invece la normalità comprare i prodotti imballati. D’altronde la normalità, da un punto di vista socio-antropologico, è quello che ci circonda, quello a cui siamo abituati e che fanno tutti.


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Per alcuni beni però la produzione in serie, e quindi l’imballaggio che ne deriva, riesce a diminuire il costo della singola unità di prodotto?

Sì, in questo modo diventa più gestibile la produzione. A livello logistico ad esempio è più pratico produrre pasta imballata.

Seppur considerandone il negativo impatto ambientale, alcuni prodotti in serie, con relativo imballaggio, potrebbero quindi avere un impatto positivo almeno per le economie delle famiglie?

Certo, ma andrebbe considerato che sull’imballaggio pesa anche il marketing. La sponsorizzazione fa aumentare il costo del prodotto. Quando il prodotto è sfuso non è indicata la marca.

Si paga quindi anche la pubblicità.

Sì e questo è un costo molto più alto dell’imballaggio stesso. L’imballaggio di per sé costa poco, poiché la plastica ha prezzi bassissimi. Quando compri il dentifricio Colgate al supermercato stai pagando la pubblicità che è andata in onda.

Si crea quindi un’economia attraverso beni poco utili alla società, come può essere la pubblicità di un dentifricio. Ad esempio nel settore natalizio si crea lavoro attraverso l’impacchettamento, e quindi gli imballaggi, dei regali. Fanno girare l’economia anche tanti aspetti negativi della nostra società, come l’inquinamento. Tutta questa economia malsana è però conteggiata nel PIL. C’è una correlazione tra l’utilizzo del PIL e la salvaguardia ambientale? Considerando soprattutto l’uso spasmodico che si fa del PIL a livello politico.

Il PIL non considera tutte le esternalità negative della nostra economia lineare. Un’economia lineare è un’economia che produce rifiuti. Il produttore di un bene sa che quel bene presto diventerà rifiuto, ma non ne è economicamente o legalmente responsabile. Ci sono tante battaglie internazionali a riguardo, che puntano ad esempio a far pagare alla Coca Cola l’inquinamento delle sue bottiglie. Noi con Sfusitalia puntiamo paradossalmente a ridurre la raccolta differenziata, poiché puntiamo a produrre meno rifiuti. Il mio progetto teoricamente, riducendo i rifiuti, andrebbe quindi a incidere negativamente sui lavoratori della raccolta differenziata, diminuendone i posti di lavoro disponibili. Possiamo vederla però anche da un’altra prospettiva. Quanti altri lavori potrebbero potenzialmente nascere attraverso la sensibilizzazione ambientale? Evitare di produrre rifiuti significa anche alleggerire la spesa da parte dei comuni e delle regioni per la loro gestione. Non dimentichiamo che molte regioni italiane esportano i rifiuti con costi molto alti per il cittadino.

Facendo sensibilizzazione ambientale sugli imballaggi potrebbero andare a diminuire i costi per l’esportazione di spazzatura. La situazione è comunque molto complessa, ci sono rifiuti che viaggiano tra gli stessi comuni, tra le regioni, tra le nazioni e tra i continenti, con dinamiche spesso dubbie. Ad esempio molti report realizzati da organizzazioni internazionali segnalano come l’Italia, parimenti a quanto fatto da molti altri paesi, abbia mandato container nel Sud-Est contenenti rifiuti indifferenziati, classificati e conteggiati però come rifiuti plastici adeguatamente differenziati. Quei rifiuti verranno invece accumulati e bruciati.

Poi ci sarebbe anche molto altro da considerare oltre il PIL…

Il PIL non regge più. Pensiamo alla questione del cambiamento climatico, che ogni tanto torna e si fa sentire. Trascuriamo il problema principale ovvero il fatto di dover ridurre le emissioni di CO2. Si dovrebbe parlare di prevenzione, di produrre meno rifiuti, i quali andando all’inceneritore non fanno altro che aumentare le emissioni di CO2.


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L’attuale pandemia sta diffondendo alcune pratiche che tendono al rispetto ambientale, riducendo ad esempio i viaggi o favorendo il turismo verde. Allo stesso tempo però sta causando anche effetti negativi in termini di inquinamento, come le consegne a domicilio o la stessa produzione di mascherine usa e getta.

Il comportamento umano è molto difficile da prevedere, in particolar modo durante una pandemia. Molte persone però, consapevoli già prima della pandemia, hanno capito qual è l’impatto anche di un piccolo gesto, come usare lo shampoo solido invece che quello dei flaconi. Chi ci crede continuerà ad acquistare prodotti più leggeri nell’impatto ambientale.

Quali sono le difficoltà che si trova ad affrontare un negozio che propone prodotti sfusi?

I prodotti sfusi si scontrano con un quadro legislativo caotico. Non esiste un testo unico. Risulta quindi difficile riordinare le informazioni legislative in merito.

Ci racconti di qualche realtà che ti ha particolarmente colpito? Negozi che hanno avuto idee innovative, magari anche nella promozione. Io ricordo con piacere Melting Pot Kilo in Belgio, che vende abiti di seconda mano a 15€ al kilo.

Mi viene in mente la cooperativa Camilla a Bologna che vende prodotti alimentari e non, alcuni dei quali sono sfusi. Rappresenta un esempio molto virtuoso sia in campo sociale, sia come stimolo per l’economia solidale. È un’idea che si sta diffondendo anche in Europa, quella dei supermercati sociali (ndr Camilla – Emporio di comunità è una cooperativa i cui soci e socie non sono semplici clienti, ma anche proprietari e gestori, in quanto partecipano direttamente alla vita economica e culturale dell’emporio. Ogni quattro settimane ciascun socio dedica 2 ore e 45 minuti del proprio tempo alla gestione dell’emporio).

In questo momento storico ti senti più ottimista o pessimista verso l’ambiente?

Sono tendenzialmente una persona molto positiva. Le mie due filosofie di vita sono di vivere qui ed ora e che può sempre andare peggio. Pensando al momento storico so che i guanti usa e getta o che le mascherine si vanno ad aggiungere a una situazione già molto grave, ma io non mollo. Ci sto mettendo anima e cuore in questo progetto.