Any Other: Loudly. Proudly. Being Yourself.


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di Gabriele Naddeo
illustrazione di Thomas Borrely, foto di Simone Cargnoni

L’anno scorso ascoltavo una puntata molto bella di un podcast del New York Times, Still Processing, dedicata a Beyoncé. A un certo punto Wesley Morris e Jenna Wortham si lamentavano del fatto che il termine genius non venisse quasi mai associato ad artistз che non fossero uomini. Prendendo spunto dal podcast, per una settimana intera ho fatto una specie di esperimento stupido, ripetendo ad alcunз amicз questa domanda: “mi diresti i nomi di tre geni? Rispondi senza pensarci troppo”. I tre geni che mi venivano citati erano sempre uomini che si identificavano come tali. Nessuna donna e nessuna persona di identità non binaria. Ora la colpa è sicuramente anche dell’italiano, lingua fortemente binaria, e della parola “genio” che non ha altre desinenze, ma anche cambiando leggermente il quesito e chiedendo di “tre personalità geniali” il risultato rimaneva invariato. Perché questa premessa? Perché Adele Altro si identifica come genderqueer e – aggiungo io – è un genio. Come definireste voi una persona di 26 anni che dal 2015 ha pubblicato due dischi e un EP uno più bello dell’altro, suona la chitarra e il sassofono, è musicista e producer e fa parte di un collettivo di dj? Appunto, un genio.

Ho chiamato Adele quest’estate, quando il lockdown era finito e aveva da poco ripreso a suonare in versione solista, per scelta obbligata dall’emergenza sanitaria. Abbiamo parlato di protesta, tema del mese su Talassa, di Frank Ocean, di pandemia e di inclusività, cosa che mi ha spinto a scrivere quest’articolo seguendo le regole dell’italiano inclusivo (mi è piaciuto molto, ma è la prima volta che lo faccio, quindi se trovate degli errori fatemi sapere). Abbiamo anche parlato dei suoi dischi, dei dischi degli altri che sta ascoltando e della linea sottile che divide la personalità artistica dalla persona vera e propria: una questione su cui ha riflettuto parecchio proprio durante lo stop forzato.

Partiamo dalla tua uscita più recente: il 5 giugno hai pubblicato l’EP “Four Covers” e hai donato tutto il ricavato della giornata all’Emergency Release Fund che – cito la loro bio su Facebook – keep Trans People Safe And Out Of Jail. A Ferrara Sotto Le Stelle hai invece parlato di TUTTE Collective, WERK! e Queer Macete, gruppo di dj formato da persone queer e non binarie. Di cosa si occupano questi progetti e com’è nato Queer Macete, in cui sei direttamente coinvolta?

Queer Macete è una costola di TUTTE collective e lavora insieme a Werk!. Sono tutte realtà nate in modo indipendente che poi si sono unite in un’unica grande forza che ancora non ha un nome, ma che un giorno ce l’avrà. Sono di fatto dei collettivi di persone che riconoscono una nell’altra una famiglia scelta, per essere liberз di essere chi ci pare di essere, sapendo che le persone che abbiamo intorno non costituiscono un ostacolo alla nostra crescita, ma che sono anche un po’ lo specchio della nostra crescita. Chiaramente quando parlo di famiglia scelta in questo caso parlo fondamentalmente di persone che fanno parte della comunità LGBT. Io personalmente non ho mai nascosto di essere queer ma non è mai qualcosa che ho messo in primo piano nella mia esperienza artistica, non perchè non lo volessi fare: semplicemente non è successo e probabilmente non ne sentivo la necessità. Più cresco, più vado avanti, più mi capisco e più sto sentendo il bisogno di integrare questa parte della mia identità nel mio percorso artistico, incluso i progetti paralleli ad Any Other, come Queer Macete.

Nel complesso: WERK! si occupa di organizzare eventi, con Queer Macete suoniamo agli eventi di WERK! e TUTTE collective è questo organismo che sta dietro il tutto. Nasce come collettivo artistico per donne e gender minorities, si occupa della parte grafica degli eventi, produce anche zines che parlano di temi cari alla comunità LGBT. La base è a Milano, ma ci sono persone da tutta Italia.

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io mi identifico come genderqueer, eppure mi sono resa conto nel tempo che nonostante esprima questo mio desiderio di non essere messa in una categoria questa cosa viene bypassata.

Restando sul tema, c’è un dibattito che trovo molto interessante (e necessario): gli sforzi di rendere una lingua più inclusiva. In inglese si può usare Mx invece di Mr o Mrs e il They invece di He or She. Negli USA poi c’è un dibattito molto sentito sull’uso dei termini Latinx, Latino o Latines. In Germania e Francia si sta provando a rendere le rispettive lingue più inclusive. In Italia a che punto siamo? Ultimamente si sta parlando tanto dell’uso dello schwa (ǝ) per rendere anche la nostra lingua più inclusiva.

Essendo l’italiano un linguaggio fortemente binario credo che poi vada a rispecchiare il fatto che le persone non riescono a pensare agli individui in termini extra-binari. Ti faccio un esempio personale: a me nessunǝ ha mai chiesto se fossi una donna oppure no, eppure sono sempre stata da subito messa dentro il calderone delle donne che fanno musica. Ora: sicuramente è una cosa che ho maturato negli anni, ma io francamente mi identifico come genderqueer, eppure mi sono resa conto nel tempo che nonostante magari esprima questo mio desiderio di non essere messa in una categoria, perchè non sento di far parte di una categoria, questa cosa viene bypassata. Non credo nemmeno che sia fatto per cattiveria, ma è dovuto proprio all’insensibilità rispetto a questi argomenti. Manca proprio la conoscenza di base di questi temi. C’è un problema di fondo e lo vedo banalmente nella mia piccola bolla di persone che seguo su Twitter. Persone che cercano di usare un linguaggio quanto più possibile neutrale, usando le x, gli asterischi eccetera e che sono state prese di mira. Ti parlo di ragazzз che magari hanno 25 anni, derisз da non so Gipi, da Makkox: figure che tendenzialmente dovrebbero essere personalità di spicco nella cultura indipendente dell’editoria italiana.

Questo dibattito ha rilevanza anche nel mondo della musica. Penso ai testi dei Buzzcoks, pensati per essere non-gender specific. Il che mi fa pensare anche a un altro tema: la presenza e il punto di vista del pubblico nel momento della creazione artistica. Tu ti sei mai sentita influenzata dal punto di vista dell’ascoltatore? Hai mai scritto un brano pensando al tuo pubblico di riferimento?

Se mi ha influenzata sì, ma non nel momento della scrittura o della creazione musicale in senso stretto. Non so neanche se parlare di influenza sia giusto, credo sia più un senso di responsabilità. Per dire: non vorrei mai che il mio pubblico fosse fatto di persone che votano Lega, quindi cerco di essere sempre molto chiara rispetto alle mie intenzioni, riguardo all’essere un*artista e al produrre dei contenuti. Sicuramente cerco di stare attenta a quello che dico, a quello che faccio e a come parlo, ma più per una questione di responsabilità. So che banalmente le persone pagano per venire a sentire cosa ho da dire, quindi cerco il più possibile di non dire delle stronzate, mettiamola giù così dai.

Al contrario, hai mai avuto la sensazione di stare per esporti troppo? Di raccontare troppo della tua vita privata a un pubblico di sconosciutǝ?  In questo senso trovo “Two, Geography” e “Silently. Quietly. Going Away.” due dischi molto coraggiosi perché molto legati alla tua sfera personale. Sembrano quasi venire fuori da un processo di autoanalisi molto dettagliato. Mi fa pensare a Frank Ocean quando in Futura Free dice: “Play these songs, it’s therapy momma”. Vale lo stesso anche per te?

Guarda non voglio ridurre l’esperienza del fare musica a qualcosa di catartico e basta, perché non è assolutamente solo quello e credo che sia una cosa che spesso viene molto romanticizzata, quando invece per me fare musica è uno strazio. Ci metto tantissimo, devo rivedere le cose mille volte prima che mi vadano bene. Però sicuramente se non mi facesse “andare avanti” – qualsiasi cosa andare avanti voglia dire – forse non lo farei come lo faccio. Nel senso che ho sempre pensato alla musica e al fare musica – e all’esperienza musicale in generale sia come artista che come fruitrice di musica – come qualcosa di funzionale e non un fine ultimo. Mi spiego: è successo che fossi brava a fare questa cosa qui, per una serie di motivi probabilmente a me sconosciuti, e quindi mi sono detta che era un modo molto bello per stare insieme agli altri. Ecco, ho voglia di fare un percorso di vita insieme agli altri, che siano le persone con cui lavoro, i miei amici stretti, il mio pubblico anche – perché poi comunque cresciamo tutti quanti insieme – e per fare ciò mi servo di questo mezzo. Se fossi stata brava a ballare forse avrei ballato: non mi interessa la musica come esperienza in sè. Chiaramente mi interessa anche questo, se no starei solo a casa a studiare, però mi interessa soprattutto come mezzo per aprire delle porte di comunicazione sia con me stessa che con gli altri. E di fatto questa cosa poi mi fa stare meglio: mi rendo conto che essere trasparente con me stessa poi sul lungo termine mi fa bene. Quindi se riesco a farlo con questo mezzo solo meglio.

Parliamo di Frank Ocean. A parte la cover di White Ferrari, mi ricordo che una volta Emiliano Colasanti scrisse su Facebook che Capricorn No gli faceva pensare a Ocean e la cosa mi pareva assolutamente sensata. Anche l’assenza di riferimenti ritmici in pezzi come Walkthrough o in generale la struttura atipica delle canzoni di “Two, Geography” sembrano richiamare in un certo senso “Blonde”. Volevo sapere la tua al riguardo.

Capricorn No è il pezzo del disco che più strizza l’occhio al soul, quindi sicuramente dal punto di vista compositivo è quello che si avvicina di più a quel mondo lì. “Blonde” è un disco che ho ascoltato all’inverosimile e che continuo ad ascoltare all’inverosimile. Io sono una grandissima fan delle “Smile Sessions” dei Beach Boys e per me “Blonde” è tipo la “The Smile Sessions” degli anni 2000 a livello di importanza personale. Se poi vai a vedere le persone che hanno partecipato a “Blonde” ci sono una serie di personaggi che effettivamente mi piacciono tanto. Tipo Jon Brion, che adoro come compositore e come produttore o Alex G, oltre a Beyoncé e Pharrell. C’è Amber Coffman degli ex Dirty Projectors che fa un coro in Nights. Ovvero: tuttз artistз che già amavo molto nei vari progetti solisti o paralleli. Quindi non so: penso che sia un’opera che comunque ha segnato un punto e che è difficile non prendere in considerazione se si vuole fare pop, se si vuole fare musica. Se c’è qualcosa di “Blonde” nel mio disco? Non è stato pensato, ma non mi sorprenderebbe che qualcosa mi fosse arrivato poi da lì, perché è troppo grande, per forza ti si mette dentro.

Ultima cosa prima di chiudere la parentesi Frank Ocean. C’è un’altro aspetto che ti lega a quest*artista. Entrambǝ avete cambiato il cognome (Ocean anche il nome) con riferimento esplicito al vostro nome d’arte. Nei tuoi dischi c’è tanto delle tue vicende personali, ma quanto, al contrario, Any Other ha influenzato la vita di Adele? Com’è cambiata la tua vita in relazione a questo progetto? 

Guarda è una cosa su cui sto riflettendo tanto proprio in questo periodo. In estate ho ripreso a suonare dopo mesi in cui sono stata ferma e mi sono proprio chiesta quale sia la zona d’intersezione tra la personalità artistica e la mia persona, diciamo. Quanto si tira da una parte e dell’altra? In questo momento non ho risposte al riguardo: mi rendo conto che le due realtà, almeno nel mio caso, si sono sempre tanto sovrapposte. Sarà che faccio anche fatica a impormi delle distanze sane, devo dire, e questo è esclusivamente un problema mio che dovrei affrontare in terapia. Però diciamo che c’è sempre stato un gran ping pong tra quello che sono come persona e quello che sono come persona artistica. Ora sono in un momento in cui mi sto chiedendo se è sano che sia così o magari se dovrei mettere quei due centimetri in più tra le due identità per permettersi di equilibrarsi anche meglio.

A proposito di varie identità: oltre ad essere musicista sei anche producer. Hai prodotto il tuo ultimo disco e co-prodotto l’album di Marco Giudici. Che tipo di producer sei? Com’è il tuo approccio in studio? Ci sono degli aspetti, dei suoni in particolare che prediligi?

Tendenzialmente credo di avere un approccio molto fricchettone al mondo della produzione, quasi “animista”. Mi spiego: l’approccio che cerco di avere in studio quando devo lavorare per altri è cercare in un primo momento di mettere il meno possibile di quello che è mio. Credo molto nel fatto che i pezzi abbiano un’anima propria che li porta ad essere qualcosa di preciso invece che qualcos’altro. Le opzioni sono sempre varie e ci sono sempre mille modi per arrangiare un brano, però diciamo che in un primo momento cerco di mettermi in una posizione di ascolto passiva per vedere cosa mi arriva dalla canzone e come posso mettermi al servizio del pezzo. Quasi neanche tanto dell’artista, ma proprio del pezzo e della musica in sé, per capire cosa posso fare per farlo arrivare nella direzione che mi sembra più naturale. Anche con “Two Geography” c’è stato questo tipo di approccio. Poi mi è capitato di lavorare con persone che avessero già un’idea artistica chiara in mente, quindi in quel caso il mio ruolo è stato di aiutare a tirare fuori l’arrangiamento, aiutare a dare una forma al tutto, spesso facendo anche quasi da psicologa oltre che da musicista in studio. Poi ci sono situazioni in cui ti trovi a lavorare con qualcunǝ che non ha mai fatto un disco e magari non ha presente come funzionano certe cose, quindi a quel punto ci sono delle volte in cui “ti tocca” mettere tanto di tuo. 

Pensando alla musica che hai pubblicato come Any Other e leggendo nel corso degli anni le varie interviste che hai rilasciato ho sempre pensato che la protesta fosse un tema cardine di questo progetto. Protesta qui intesa come reazione a uno status quo che non ti andava bene. In “Silently. Quietly. Going Away.” era una reazione al fatto di non voler star più male, all’adolescenza. In “Two, Geography” la reazione sembra quasi nei confronti del disco precedente, soprattutto dal punto di vista musicale. Quanto conta la protesta nella tua vita privata e di artista? Cosa significa Protesta per te?

Ti direi che è quasi un motore che mi spinge a fare le cose, appunto. Come dicevo prima: vivermi il fare musica come mezzo per arrivare a un senso di comunità più grande di quello che provo singolarmente – e che penso proviamo tuttз in questo momento – ha assolutamente a che fare con un senso di protesta. Di trovarsi in una situazione che senti ti sta stretta, che ti impone qualcosa che non è quello che va bene e fa bene per te. Francamente per me è strano perchè quando ho iniziato a suonare sono stata molto “vocale”. Ho sempre alzato molto la voce nel suonare e nel cantare, una cosa che invece nella mia vita privata ho imparato a fare solo di recente. Però mi sto rendendo conto che è una grossa forza a propulsione che permette di uscire da situazioni di disagio emotivo o sociale e sto arrivando a un punto in cui per me sarebbe impossibile non vedere le cose anche con questo filtro qua. Spero che sia così per tuttз a questo punto, considerando che il mondo sta andando abbastanza a rotoli. 

Ci sono senza dubbi tanti modi di protestare. Ci sono proteste violente, pacifiche, silenziose, personali, collettive e anche gioiose. A proposito di proteste gioiose: tu sei una delle ragazze di Porta Venezia! Mi racconti dell’esperienza del video? La cosa si è fermata lì o è un progetto che va avanti con tutte le persone che si vedono nella clip?

Ho conosciuto M¥SS KETA sei, sette anni fa: stavo suonando a casa di unǝ amicǝ e lei era lì. Era appena uscito il suo “Milano, sushi e coca” e anche io ero proprio all’inizio con Any Other. Oltre alla Myss, con cui poi ho collaborato anche in “Una vita in capslock” suonando il sax in un pezzo, le ragazze di Porta Venezia sono tutte persone stupende. Quella del video non è stata un’esperienza che si è fermata lì, così come non è cominciata lì. Non so neanche quanto lo veda come una questione lavorativa. È semplicemente tutto un gruppo di persone umanamente molto belle e con cui sentiamo quella necessità di non doversi adattare a una forma, a qualcosa di chiuso o di definito. È stato così anche quel giorno. Poi banalmente per me che nella vita quotidiana non sono molto femme, potermi truccare, potermi vestire in un certo modo è stato molto liberatorio, anche molto divertente. Per me che solitamente non lo faccio è stato quasi come essere in drag.

Passando invece a proteste più “silenziose”. Il 21 giugno è stata una festa senza musica, quella dellз lavoratorз dello spettacolo. La musica che gira sta portando avanti istanze importantissime per tutto il settore, pesantemente colpito dalla quarantena. In che modo, da artista e lavoratrice della musica, hai vissuto i mesi di lockdown?

Sicuramente sono stata molto privilegiata, nel senso che non sono stati mesi terribili, proprio dal punto di vista materiale: l’affitto l’ho pagato, quello che dovevo fare l’ho fatto, sono stata bene. Però per un*artista è anche molto più facile rispetto, che so, a unǝ tecnicǝ che ha bisogno dellз artistз per poter lavorare, mentre lз artistз in un certo senso possono farlo anche a casa o comunque è più facile farlo da casa. È stato sicuramente strano: la cosa che ho vissuto peggio è stata proprio lo scollamento delle due identità di cui parlavamo prima. Tendenzialmente essere non solo musicistǝ, ma anche l*artista, quindi la persona numero uno del proprio progetto è una cosa che influenza tantissimo il tuo ego, influenza tantissimo il modo in cui ti rapporti e ti relazioni al mondo. Banalmente ti dà molta sicurezza e ti definisce anche tanto come persona. Trovarsi a passare da cento a zero rispetto a quella cosa lì ti rimette anche un po’ al tuo posto. Una volta spogliata di tutto quello che è il mio lavoro e il mio fare musica come questione sociale, mi è venuto da chiedermi: io chi sono poi di fatto? Cosa rimane di me? Quella è stata la parte più difficile e so che è stato così per moltз artistз e musicistз: ricordarsi che , appunto, sei anche una persona oltre che un*artista o musicistǝ. Il che sembra assurdo perché pensi di fare il lavoro migliore del mondo, qualcosa che ami e quindi vorresti essere solo quello e basta. E invece no, è importante anche essere altro rispetto all’essere artista. Poi è stato difficile anche da un punto di vista pratico: il primo mese volevo suonare ma non potevo come avrei voluto, dato che non potevo andare in studio e a casa avevo solo la chitarra.

La pandemia ha in un certo senso costretto moltз artistз a esibirsi in versione ridotta e/o a riprogrammare completamente interi tour. Anche il tuo Sextet show è stato annullato e hai programmato un Solo Tour. Com’è stato suonare la prima data in solitaria dopo uno stop di diversi mesi? Hai in programma di riproporre il Sextet Show in futuro? 

Io ero ferma da novembre, con l’idea di ricominciare a marzo, quindi già non stavo suonando da quattro mesi. Credo di non aver suonato per quattro mesi interi solo anni fa, prima di cominciare con Any Other. Non mi è mai successo negli ultimi sei anni di stare ferma e non suonare per più di due settimane. Quindi già per me quattro mesi erano stati un’eternità. Poi con il lockdown è stata la crisi totale, perché a un certo punto suonare dal vivo diventa anche quasi una droga: sono endorfine, adrenalina, ti fa sentire vivǝ. Infatti in vista della prima data dopo il lockdown ero a casa che facevo le prove e ammetto di essermi sentita molto agitata, il che mi ha sorpresa perché di solito sono emozionatǝ quando devo suonare, ma non preoccupata. So che so fare questa cosa, quindi perché dovrei agitarmi? Invece in quel momento ero agitata, facevo le prove in camera mia e pensavo di non essere più capace, di non saperlo più fare. Poi in realtà ho suonato, è stato super bello ed è andato tutto liscio, non è stato diverso da quanto si faceva prima del covid, insomma. Però ecco mi ha sorpreso quanto poco ci voglia a disabituarsi a una cosa che fai da anni. Poi comunque è strano perché, sì, è un concerto vero ovviamente, però non è un concerto “scelto”. È dettato dalla situazione che stiamo vivendo. E sarò onesta: avevo tutti altri progetti per quest’estate e tra i miei piani non c’era suonare come Any Other. Avevo in programma di fare il mio tour con il sestetto, poi impacchettare tutto e fare il tour con Marco Giudici, con Colapesce e Dimartino, poi di nuovo in autunno le date di Any Other in Europa. Quest’estate volevo stare ferma con le mie cose, poi chiaramente all’idea di dover star ferma fino a data da definirsi non ce la potevo fare a non suonare. Invece per quanto riguarda Sextet è stato veramente un colpo: ci avevo lavorato tanto e ci stavamo lavorando tanto io e le altre persone coinvolte.

Che poi: mi racconti la scelta dietro lo show for guitar, wurlitzer, viola, cello, flugelhorn e tenor saxophone?

Volevo fare una cosa che concettualmente fosse una mini-mini-mini orchestra da camera: tutto acustico, senza percussioni, senza amplificatori. Qualcosa che potesse essere suonata in acustico a dei volumi bassi che permettessero di far uscire la dinamica naturale degli strumenti. La fortuna è che non essendo un tour legato ad un disco, quindi fatto per pura gloria e non per promozione, sono sicuramente intenzionata a farlo appena potrò. Non c’è fretta insomma, ma mi rifiuto di pensare che ho scritto quel concerto per poi non farlo. 

Oltre alla chitarra suoni vari strumenti, incluso il sassofono che, tra l’altro, è molto presente in “Two, Geography”. In questo senso, la prima volta che ascoltai il disco mi fece lo stesso effetto di “The Ooz” di King Krule: il passaggio da un suono scarno, grezzo e diretto a melodie complesse e jazzy. Come sarà il prossimo disco di Any Other? È cambiato il tuo approccio verso la forma canzone e la scrittura (musicale e non) di un brano?

Queste sono belle domande, nel senso che non ho le risposte nemmeno io. Ti dirò: mi piace pensare all’idea di lavorare a un nuovo disco come un’occasione per imparare a fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non ho ancora idea di come fare. Così è stato anche per “Two, Geography”: ho studiato per riuscire a fare quel disco lì, più complesso del primo. Se avessi voluto fare “Two, Geography” nel 2015 non l’avrei saputo fare. Quindi sono un po’ in questa posizione in cui non so se adagiarmi e fare qualcosa di facile, che so che riuscirei già a fare bene, o buttarmi su qualcosa di completamente diverso perché forse Any Other è ‘sta roba qua in cui si va dove cazzo si vuole andare, senza costrizioni. Non ho ancora una risposta perché la produttrice che è in me dice di non forzarsi e, come dicevo prima, guardare dove vanno i pezzi che sto scrivendo.

Ho citato King Krule che ha pubblicato “Man Alive!” nel 2020 e ne approfitto per chiederti: che dischi stai ascoltando adesso? 

Guarda prendo il telefono e te li leggo che ora non mi ricordo! Ah, stamattina ascoltavo un disco del 2000 di David Grubbs, “The Spectrum Between”, poi vabbè ho sentito tantissimo l’ultimo disco di Fiona Apple, di cui sono una grande fan. Sto ascoltando tanto anche “Pang” di Caroline Polachek: pop synth molto bello, molto fresco…che è una parola che odio ma ora non me ne vengono in mente altre. Poi “Music for Saxophone and Bass Guitar” di Sam Gendel e Sam Wilkes, gli Outkast (“Aquemini”) e…ah Moses Sumney! Sto facendo il pasticciaccio dai: sto ascoltando veramente di tutto.