di Gerardo Russo
illustrazione di Thomas Borrely
Il Pulmino Verde è una ONLUS nata a Torino nell’agosto 2016 con l’obiettivo di svolgere attività concreta di sensibilizzazione in materia di migrazione. Ne scopriamo la storia e le attività con la presidentessa Fernanda Torre. Il progetto è iniziato con un viaggio in una zona di confine, precisamente nel campo profughi di Idomeni, località greca poco distante dalla frontiera macedone. Da allora ogni anno sono stati organizzati spostamenti simili, svolgendo attività di volontariato. Fernanda con il Pulmino Verde ha scelto di percorrere la rotta balcanica al contrario, partendo dalla Slovenia, dove durante l’Erasmus svolgeva volontariato in due campi di confine, fino a raggiungere Salonicco.
Ne avete fatti di chilometri con Il Pulmino Verde. Quali sono invece le attività che portate avanti in Italia?
Abbiamo organizzato diversi laboratori in alcuni centri d’accoglienza di Torino, toccando temi come l’educazione civica, la costituzione e il fenomeno della migrazione interna tra Sud e Nord Italia. Abbiamo abbinato questi percorsi poi a delle visite museali, studiando la storia di Torino, il Museo del Risorgimento e il Museo dell’automobile. Portiamo avanti anche delle attività dedicate alla lettura, dove condividiamo libri in inglese o francese e cerchiamo di introdurre gradualmente libri in italiano. Coinvolgiamo anche i minori con dei corsi dedicati alle costruzioni in legno. Teniamo anche vari workshop nelle scuole, dove promuoviamo la cittadinanza attiva e diffondiamo quelle che sono le nostre esperienze di viaggio.
Il progetto era ambientato nella città di Saluzzo, in provincia di Cuneo, ed è terminato a giugno 2020. Il focus è stato realizzare un’inchiesta giornalistica sul lavoro agricolo stagionale, intervistando sia braccianti che soggetti vari al settore come personale di volontariato, sindacati e mediatori. Quando è sopraggiunta la pandemia legata al COVID-19 abbiamo deciso di estendere il lavoro anche alle realtà del Sud Italia. Abbiamo intervistato Ilaria Zambelli, coordinatrice di MEDU – Medici per i diritti umani, che ci ha raccontato di cosa era successo nella piana di Gioia Tauro a marzo. Terminato il periodo di raccolta, molte persone erano rimaste bloccate lì.
Avete così scoperto il percorso abituale di un bracciante agricolo in Italia.
Una volta terminata a marzo la raccolta delle arance in Calabria, un bracciante si dirige in Puglia o a Saluzzo, dove il lavoro va da metà maggio fino a novembre. Quest’anno, per via delle difficoltà di spostamento legate al COVID-19, molti braccianti sono rimasti bloccati mentre nelle altre aree le aziende lamentavano una forte carenza di personale.
Chi sono i braccianti?
I braccianti per lo più arrivano dall’Africa, raramente si incontrano siriani, mentre c’è un’alta percentuale di pakistani e bengalesi. Per la maggior parte sono persone sprovviste di permesso di soggiorno. Ci sono molti che si trovano in una fase di richiesta asilo alle Commissioni territoriali, a cui segue spesso un diniego. In questa prima fase si vive nei centri di accoglienza, ma in seguito a un diniego si può essere portati all’abbandono della struttura. I decreti sicurezza hanno poi allontanato la possibilità di ricevere permessi umanitari, aumentando così i dinieghi da parte delle Commissioni territoriali. Il lavoro dei braccianti è per la maggior parte in nero. Abbiamo riscontrato che al nord si tende di più a fare contratti rispetto al sud, dichiarando comunque un monte ore inferiore a quello effettivo.
Il ruolo dei braccianti è stato importantissimo durante il lockdown. In un vostro reportage si legge quanto dichiarato da un bracciante: “Voi mangiate quello che produciamo noi”. Cosa è cambiato con il decreto Rilancio, che ha previsto alcune modalità di regolarizzazione per i lavoratori stranieri?
La sanatoria Bellanova ha creato un grande dibattito. In origine avrebbe dovuto portare benefici ai lavoratori in nero, ma di fatto ha dato la possibilità di avere un permesso di soggiorno temporaneo ai soli lavoratori stranieri che non avevano lasciato il paese prima dell’8 marzo 2020. Il permesso rilasciato poi sarebbe potuto durare dai 3 ai 6 mesi, con possibilità di rinnovo per altri 4 mesi. Senza risolvere dunque la situazione in maniera definitiva. Non è poi emersa la questione abitativa dei braccianti, estremamente pericolosa, considerando che ci sono persone che vivono in condizioni degradanti e disumane. Tutto questo in un contesto di emergenza sanitaria. Abbiamo trovato assurda la mancata analisi di questo tema da parte del governo. Una persona affetta da COVID-19 potrebbe vivere in una baraccopoli, in una totale assenza di strumenti di tracciamento dei suoi spostamenti e delle persone che frequenta. Analizzando comunque il contesto della sanatoria, potremmo dire che si è approfittato un po’ della situazione per attribuirsi il merito della regolarizzazione di molte persone, quando poi il reale interesse è sembrato quello di voler dare un sostegno forte soprattutto alle aziende in difficoltà.
Facilitando la regolarizzazione da parte delle aziende queste avrebbero potuto dichiarare più facilmente le loro spese?
Le aziende erano in difficoltà poiché mancava il personale lavorativo. In questo modo si è voluto incentivarle a regolarizzare. Le misure della sanatoria sono state poi rivolte solo a determinati settori, come agricoltura, pesca e assistenza domestica, non invece ad altri dove si verificano comunque casi di irregolarità e sfruttamento (ndr edilizia, ristorazione, logistica). La conseguenza è stata che molte persone si sono spostate verso i settori coinvolti nella sanatoria.
La difficoltà dei migranti durante la pandemia stava creando notevoli problemi alle aziende dunque. La sanatoria cercava quindi di andare incontro alle loro esigenze.
Si voleva che da fine maggio fossero disponibili i lavoratori, ed è stato così se pensiamo alla Puglia per i pomodori e al saluzzese per mirtilli e peschi. La sanatoria ha avuto questo impatto. La prima bozza del testo però mostrava un’altra idea di fondo, che non aveva però possibilità di essere attuata, in quanto aveva trovato molti ostacoli nella maggioranza di governo.
Si è agito senza intervenire in modo deciso sulla situazione dei braccianti, che hanno avuto la possibilità di avere un permesso di soggiorno, ma comunque instabile.
Purtroppo questo è un tema che pochi vogliono affrontare. Si dovrebbe partire dalla Bossi-Fini, grande blocco per i braccianti, ma è un argomento pericoloso per molte parti politiche.
Un tema forse poco affrontato è anche il legame tra la situazione dei braccianti agricoli e la Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Quanto è forte l’imposizione dei prezzi da parte della GDO agli imprenditori agricoli?
Molti rappresentanti di cooperative sociali e agricole, ad esempio in Puglia, spiegano che è inammissibile che ci siano passate di pomodoro vendute senza sconti sotto i 99 centesimi, poiché la passata ha un costo molto più ampio. C’è grandissima superficialità da parte della GDO. I supermercati non provano ad analizzare il problema del caporalato. L’unica che si differenzia un po’ è la Coop. Un caso interessante è quello della polpa Mutti, coinvolta in uno scandalo poiché aveva appoggiato aziende dalla condotta negativa. La Mutti si era così macchiata di questo comportamento, ma i suoi prodotti sono ancora oggi acquistabili al supermercato. La questione è complessa. Si può chiedere a un cliente di non comprare prodotti macchiati da lavoro viziato, ma allo stesso tempo non sempre un cliente può permettersi una polpa di pomodoro con un prezzo alto come quelle disponibili attraverso i mercati equi e solidali, che garantiscono la tracciabilità. Aboubakar Soumahoro, durante gli Stati Generali, aveva proposto l’introduzione di un bollino etico che garantisse la tracciabilità, ma devono comunque essere i supermercati a recepire le proposte positive e a intervenire.
Un’alternativa alla GDO potrebbero essere i gruppi di acquisto, cioè persone che si organizzano autonomamente per acquistare beni direttamente dal produttore, riducendo la filiera e facendo sì che egli riesca a mantenere i prezzi bassi attraverso volumi di vendita costanti. Esistono pratiche di consumo responsabile, legate a una filiera di distribuzione più corta?
A Torino ci sono Gruppi di Acquisto Solidali (GAS). Queste realtà però non sono tanto pubblicizzate e promosse.
Sono spesso iniziative di singoli cittadini, forse per questo poco diffuse. A volte si strutturano a livello condominiale.
Sì sono buone idee, ma di cui si legge raramente. L’obiettivo deve rimanere quello di sviluppare una filiera più tracciabile e trasparente.
Analizziamo il problema da un altro punto di vista. I consumatori forse necessitano in generale di avere una vasta gamma di prodotti tra cui poter scegliere. Non accettano sempre di poter scegliere solo prodotti legati alla stagionalità. Il consumismo ha un ruolo nella situazione dei braccianti e più in generale sugli sprechi? Quanto conta la mentalità del consumatore?
La GDO punta più sulla quantità che sulla qualità. Sono stati analizzati in passato i prezzi dell’Eurospin, dove frutta e verdura sono vendute anche sotto all’euro al chilo. Cosa c’è dietro quell’euro? Oxfam aveva evidenziato il comportamento negativo di alcuni supermercati. Ciò pone però la questione su quanto sia responsabile il consumatore. Lui può avere una scelta e se questa si basa solo sul prezzo è normale che preferirà il prezzo più basso.
Una chiara dimostrazione del potere della GDO: le aste al doppio ribasso.
L’obiettivo della GDO è spingere verso il basso il prezzo dei prodotti, che siano materie prime o prodotti trasformati. I rappresentanti della GDO fissano il prezzo di acquisto di un prodotto e le aziende devono riuscire a offrire un prezzo di vendita ancora più basso di quanto fissato dalla GDO. C’è poi una seconda asta, che parte dal più basso prezzo di vendita proposto dalle aziende durante la prima asta. Gli imprenditori devono così riuscire ad accaparrarsi le forniture puntando su prezzi bassissimi. Una sorta di gioco d’azzardo. Diventa fondamentale dunque il lavoro nero dei braccianti per abbattere i costi. Sarebbe davvero interessati analizzare le aste, che avvengono comunque normalmente. Ci sono stati passi in avanti per provare a contrastarle, come nell’ottobre 2016 con la legge contro il caporalato, ma si è intervenuti solo sulle aziende agricole e non sulla GDO.
Molti sostengono che se il lavoro dei braccianti fosse regolarizzato ci sarebbero molti italiani che vorrebbero farlo e quindi minori possibilità di lavoro per i migranti.
L’opinione pubblica ha parlato per mesi di come i braccianti togliessero lavoro agli italiani. A Saluzzo ci sono normalmente circa settemila lavoratori stagionali agricoli, di cui il 60% vive all’interno dell’azienda. Si è provato a reperire il personale mancante tra quelli che usufruiscono del reddito di cittadinanza, ma solo circa un centinaio di persone ha risposto favorevolmente. Molti non erano idonei al lavoro agricolo. Si è arrivati così a metà maggio con la necessità di reperire molti lavoratori.
Manca quindi la disponibilità di personale italiano formato e adatto al lavoro agricolo. I braccianti stranieri hanno maturato forti competenze, che vanno al di là delle situazioni contrattuali. C’è quindi una domanda di forza lavoro di cui l’Italia non dispone?
Esatto, c’è stata una dimostrazione pratica di quanto il personale necessario mancasse. Ci sono molti lavoratori italiani nel settore agricolo, ma gli stranieri sono comunque la maggioranza, anche tra quelli contrattualizzati. C’è da aggiungere che gli stranieri hanno una maggiore flessibilità lavorativa, si spostano facilmente da un posto all’altro in base alla stagione. Parliamo dunque di un fenomeno migratorio legato a una domanda di lavoro in un settore in cui l’Italia è carente.
Si parla ancora più raramente di come la produzione di ortaggi e derivati in Italia per la GDO possa avere un impatto sull’economia di altri paesi del mondo. Pensiamo alla diffusione di prodotti industriali a basso costo che conquistano i mercati africani, andando a intaccare economie spesso deboli, legate alla produzione di piccole quantità e con costi unitari più alti. Paradossalmente i prodotti industriali italiani poi riescono ad avere un basso costo proprio grazie alla manodopera sottopagata dei braccianti africani.
Un tema anche questo poco toccato, quasi per niente. Si crea una concorrenza sleale con i prodotti locali attraverso i migranti che lavorano in Italia. La situazione è molto critica e in generale non vedo miglioramenti all’orizzonte. La sanatoria Bellanova poi è stata una presa di posizione molto pericolosa che rende ora difficile l’attuazione di altre politiche.
Banalmente i migranti non votano e quindi l’attenzione politica è bassa. La sanatoria, più che per loro, è stata fatta per una scelta emergenziale legata al COVID-19.
Il punto è proprio questo, cioè che si interviene senza un programmazione. L’obiettivo è stato dare respiro alle aziende che avevano necessità di manodopera. Manca una visione d’insieme, si va avanti arrancando continuamente. Si vedranno poi tra poco gli effetti dei decreti sicurezza e si continuerà a cercare soluzioni arrancando.
Aumenteranno i dinieghi, dunque gli emarginati.
Sì, si metteranno più persone in strada rendendo il tessuto sociale più fragile. La situazione è delicata e non si può poi solo sperare che le associazioni di volontariato facciano quello che altri dovrebbero fare.
C’è bisogno di prese di posizione da parte di chi ha potere decisionale.
Sì, in primis partendo dalla Bossi-Fini. Nessuno ne parla. Si è creato nel tempo, attraverso una serie di politiche sbagliate, un agglomerato di persone invisibili che sono poi quelle che lavorano nei contesti agricoli.