di Alvise Danesin
grafiche di Thomas Borrely
Clavdio, nome d’arte di Claudio Rossetti, è musicista e cantautore. Vive a Roma Est, tra Alessandrino e Centocelle, e ha vissuto per qualche tempo in un furgoncino nella campagna irlandese. Il suo disco d’esordio, “Togliatti Boulevard”, è uscito a marzo 2019 per Bomba Dischi e il singolo Cuore è diventato disco d’oro. I suoi brani, in equilibrio tra malinconia e autoironia, chitarra acustica e parti elettroniche, hanno un grande pregio: sanno parlare di temi importanti con una vena leggera e non superficiale.
Roma è la tua città e hai dedicato il titolo del tuo album d’esordio a una via di Roma Est: via Togliatti. Mi racconti il tuo rapporto con la capitale? Come racconteresti il tuo quartiere a chi non lo conosce?
Roma è una città veramente grande e a mio parere la più bella del mondo. Esistono zone talmente distanti, come Roma Nord, che qualche volta penso che potrei addirittura andarci in vacanza. Il centro poi è ancora diverso dalle periferie, sembra quasi un’altra città. Io ho sempre vissuto in periferia, a Roma Est appunto, e non posso dire di essere affezionato a tutta la città come lo sono del mio quartiere. Roma Est probabilmente assomiglia alle periferie di molte altre metropoli, ma credo che qui il rapporto con il proprio quartiere sia molto passionale. Anche la stessa Roma Est è molto grande. Io son cresciuto tra Alessandrino e Centocelle, due zone piene di negozi, di cinema, di vita. Alessandrino prende il nome dall’acquedotto che attraversa il quartiere, esattamente in via Togliatti, e che lo rende ancora più speciale.
In un’intervista hai detto che da ragazzo hai frequentato molto il Forte Prenestino. Mi racconti di quel periodo? Come hai vissuto in generale la periferia, il centro sociale e cosa ti è rimasto di quegli anni?
Il Forte Prenestino si trova proprio a pochi minuti da casa mia, a Centocelle. Quando ero adolescente, tra medie e superiori, ero sempre lì con i miei amici per suonare o per vedere gli altri gruppi. Il Forte è stato un punto di riferimento per il quartiere e per noi ragazzi. Lì ho imparato a lavorare in gruppo e a capire cosa voglia dire condivisione: quando venivano organizzate le serate chiunque poteva contribuire con l’organizzazione, l’allestimento o in cucina. Quando poi ho cominciato a conoscere il gruppo di ragazzi che gestisce il Forte e passavo a salutarli mi capitava di ritrovarmi a giocare a calcio con le band che avrebbero suonato la sera. È successo anche con gli Ska-P. Era un posto strano per certi versi, comunque. Una volta varcata la soglia sembrava di entrare in un’altra dimensione: passavi dal quartiere popolare al verde del centro sociale e a quell’età poteva rappresentare la salvezza. Potevi coltivare la tua creatività con altri ragazzi, c’era la sala prove. Ancora oggi cerco di frequentarlo quando posso e quando organizzano feste ed eventi. Come Crack, il festival dei fumetti dirompenti, o il Mercato Terra Terra.
Com’è la situazione attuale dei centri sociali a Roma? Ci sono dei locali di Roma Est che frequenti e che consiglieresti?
Non sono molto informato sulla situazione dei centri sociali di Roma. Vado al Forte Prenestino perché è quello a cui sono affezionato mentre gli altri li frequento quando capita, come lo Spartaco, sulla Tuscolana, o un tempo l’Acrobax, verso l’Eur, che ora però purtroppo non c’è più. In ogni caso penso che la situazione sia molto cambiata da quando frequentavo assiduamente il Forte e che ora ci siano molti meno centri sociali. Fortunatamente il Forte resiste ancora. Altri locali invece non saprei dirti perché ora che son cresciuto esco molto poco. Spesso vado in qualche pub gestito da amici oppure nei locali dove suono. Alcuni che mi vengono in mente sono il Monk, gestito da Raniero (Raniero Pizza, ndr), che gestiva anche il Circolo degli Artisti, poi il Dal Verme, quando c’era ancora, o il Largo Venue. Quelli insomma che continuano a proporre musica dal vivo e serate.
A proposito di Roma Est e via Togliatti: con i tuoi amici hai dato vita all’Olympique Togliatti, squadra di calcio a otto. Il calcio occupa un ruolo importante anche nell’immaginario visivo di Clavdio. Da dove nasce questa tua passione e come secondo te ha influenzato il tuo alter ego artistico?
La passione per il calcio nasce da bambino. Qui a Roma una delle prime cose che sei costretto a scegliere è “della Lazio o della Roma?”. Mio padre mi disse di essere della Lazio quindi non ho avuto molta scelta in realtà. A calcio poi ho giocato fino agli esordienti, e probabilmente avrei potuto anche continuare, non ero male, però ho scelto di seguire la passione per la musica. La squadra è nata dopo che ogni fine settimana ci si organizzava per fare una partita fra di noi cercando di fare due squadre: tifosi della Roma contro tifosi della Lazio. Poi abbiamo proposto di fare un’unica squadra del quartiere per partecipare ai vari tornei e abbiamo dedicato il nome a via Togliatti. Alla fine siamo riusciti a unire tifosi della Roma e della Lazio sotto un’unica bandiera.
Per un periodo ti sei trasferito in Irlanda: come è stata questa esperienza? Quanto hai inciso nel tuo percorso musicale? Che differenze hai notato con Roma e cosa ti ha spinto a ritornare?
Beh la differenza con Roma è presto detta: il numero di abitanti dell’Irlanda è poco meno del doppio degli abitanti di Roma. Io stavo in un paesino di 3500 abitanti a sud-ovest dell’isola. Son partito dopo aver fatto un po’ di date sotto il nome de Il Rondine e lì aiutavo questa famiglia a costruire la loro casa in stile irlandese, quindi legno e pietra, in cambio di vitto e alloggio. L’alloggio era un pulmino con un letto e una stufa. Ero distantissimo dalla vita metropolitana e mi trovavo benissimo. Ho scoperto gli irlandesi come persone molto calorose e dopo cinque anni sono ancora in contatto con la famiglia che mi ha ospitato. Quel periodo mi ha aiutato a fare chiarezza sul mio percorso artistico. Lì suonavo musica irlandese insieme al tipo che mi ospitava e nel pulmino ero libero di poter suonare quando volevo.
Si può dire quindi che sei partito come Il Rondine e sei tornato come Clavdio?
Certo, si può dire. Per quanto riguarda il ritorno io avevo preso il biglietto di sola andata, poi però avevo la ragazza qui a Roma. Avrei voluto che mi raggiungesse, ma per vari motivi non ha potuto e allora ho deciso di tornare io. Mi avevano proposto di rimanere e sarei rimasto lì molto volentieri.
Una cosa però è rimasta la stessa: il tuo approccio malinconico e autoironico, a tratti anche un po’ cinico (che già ci era piaciuto molto nel brano Pregiudizio su Sergio). Cos’è la malinconia per Clavdio e cosa ti rende o ha reso la tua musica malinconica? Perché secondo te è un tema così ricorrente?
Sì, penso che il passaggio da Il Rondine a Clavdio sia stata un’evoluzione naturale. Non ho mai deciso a tavolino quale sarebbe stato il mio percorso, anzi, prima ho scritto i pezzi e poi, al momento della pubblicazione, ho deciso di cambiare nome al progetto. Il nome Il Rondine l’ho scelto di fretta e non ne ero troppo soddisfatto. Inoltre “Togliatti Boulevard” è uscito dopo quattro anni dall’ultimo lavoro come Il Rondine e cambiare nome mi sembrava un modo per ripartire e per rendere il progetto più vicino a me.
La malinconia credo nasca dalla storia generale della mia famiglia, dai tanti eventi che mi sono capitati e dal semplice crescere. Mia madre è di Capoverde e questo sentimento di saudade è sempre stato presente. Me lo porto dentro e per questo credo di essere sempre stato un po’ così, un po’ malinconico. Quello della malinconia è un sentimento molto forte che nel mio caso non nasce da qualcosa in particolare, la definirei più una malinconia esistenziale. Non sempre va visto come qualcosa di negativo, spesso questo sentimento è anche uno dei principali motori artistici che ti spronano e ti stimolano.
Metterlo in musica è un modo per esorcizzare?
Sicuramente. Metterlo in musica è sempre stato il mio primo modo per esprimere i sentimenti e le emozioni, non essendo un grande comunicatore. La musica mi ha aiutato ad esprimermi ed è una valvola di sfogo: usare queste energie e farle diventare una canzone piuttosto che tenere tutto dentro.
A proposito di malinconia e ironia: sei un grande appassionato di scrittori russi dell’800. Come ti ci sei avvicinato alla letteratura russa? Come ha influenzato la tua musica? Ci consigli al riguardo un libro meno noto da non perdere assolutamente?
Non son mai stato un grande lettore. A casa non è che si leggesse tanto. Aldilà del lavoro che facevano, i miei non sono mai stati dei lettori. Mio padre ha sempre fatto l’operaio, mia madre faceva le pulizie e il loro primo pensiero è sempre stato quello di far tirare avanti la famiglia. Ho scoperto la lettura tra medie e superiori. Il primo libro in assoluto che ho letto in vita mia è stato Dracula di Bram Stoker: ero affascinato dal personaggio e il film mi era piaciuto molto. Crescendo poi mi sono appassionato alla filosofia orientale e mi iscrissi all’università per cercare di approfondire questi studi. Per pagare le rette cominciai a lavorare in tipografia e dopo poco il lavoro diventò a tempo pieno, quindi smisi di seguire le lezioni e mollai l’università. Continuai comunque a leggere di filosofia e infatti il titolo del disco de Il Rondine del 2014 è una frase tratta da La tranquillità dell’animo di Seneca: “Può capitare a chiunque quello che può capitare a qualcuno”. Poi lessi Delitto e Castigo di Dostoevskij e da lì cominciai ad appassionarmi alla letteratura russa. Mi piaceva perché è ricca di flussi di coscienza e riflessioni dei protagonisti. Come Raskolnikov che si faceva un sacco di film mentali e ragionamenti logici. Sicuramente queste letture hanno influenzato la mia musica: nei brani penso che si senta che sotto c’è una sorta di morale, ispirata proprio dal modo in cui sono scritti questi testi. Per quanto riguarda il libro da consigliare direi Oblomov di Gončarov, e aggiungo che tutti dovrebbero leggere Delitto e Castigo di Dostoevskij, classicone.
Quale artista, del passato o contemporaneo, pensi che abbia saputo interpretare al meglio la malinconia?
Di malinconico mi viene in mente Tenco e De Andrè, oppure Piero Ciampi. Di internazionale invece mi piace molto Antony and the Johnsons. L’ho visto live all’Auditorium a Roma e appena ha cominciato a cantare è uscita la lacrima. Il pezzo più famoso credo sia Hope There’s Someone ed è di una malinconia struggente.