Il club del disco: Diss this America

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Ogni settimana su “Il club del disco” commentiamo e analizziamo le novità più interessanti in ambito italiano e internazionale. Ogni mercoledì (a volte anche il martedì), invece, pubblicheremo anche qui sul sito il contenuto che gli iscritti al canale telegram hanno letto qualche giorno prima.


Fotogramma della finta pubblicità dei Coconut Crunchos tratta dall' episodio B.A.N. della prima stagione di Atlanta

Fotogramma della finta pubblicità dei Coconut Crunchos tratta dall’ episodio B.A.N. della prima stagione di Atlanta

Cara Ale,

Between The World and Me di TaNehisi Coates inizia così:

”Figlio,

domenica scorsa la presentatrice di una nota trasmissione televisiva ha chiesto che significato avesse per me perdere il mio corpo. Lei era a Washington D.C., mentre io me ne stavo seduto in uno studio sperduto all’estremità di Manhattan. C’era un satellite a coprire la distanza tra noi, ma nessuna macchina avrebbe mai potuto colmare la distanza tra il suo mondo e quello in nome del quale ero stato chiamato a parlare.

Nel momento in cui la presentatrice ha fatto quella domanda, sullo schermo, al posto del suo viso, sono comparse alcune frasi che avevo scritto all’inizio di quella settimana. La presentatrice ha letto quelle parole al pubblico, poi è passata ad affrontare il tema del mio corpo, pur senza nominarlo mai esplicitamente. Ormai sono abituato a sentirmi rivolgere domande sulla condizione del mio corpo da persone intelligenti, senza capire le ragioni della loro richiesta. 

Nello specifico voleva sapere perché ritengo che il progresso dell’America bianca, o meglio di quegli americani che pensano di essere bianchi, sia basato sul saccheggio e sulla violenza. Mentre ascoltavo, ho sentito una vecchia e indistinta tristezza riaffiorare dentro di me. La risposta a questa domanda sta nelle geste di coloro che si credono bianchi. La risposta è la stessa storia americana”.

Il 25 maggio 2020, George Floyd, afroamericano di 46 anni, è stato ucciso da Derek Chauvin, poliziotto bianco di Minneapolis, Minnesota. ”I can’t breathe”, le ultime parole pronunciate da Floyd, sono anche le ultime parole pronunciate da Eric Garner, ucciso da un altro poliziotto bianco nel 2014. 

Ho provato per tutta la settimana a mettere insieme due righe due che avessero senso al riguardo e puntualmente mi sono sentito inadeguato. 

”La risposta è la stessa storia americana”. 

Sto rivedendo Atlanta di Donald Glover. Voglio rivedere Do The Right Thing di Spike Lee. Voglio riprendere in mano i libri di Ta-Nehisi e James Baldwin. Voglio finire di leggere Beloved di Toni Morrison. Se la risposta è ”la stessa storia americana” vale la pena approfondire questa storia. Non per cercare risposte o serenità, ma altre domande. Non per poserismo o velleità pseudo-intellettuali da spiattellare sui social, ma per essere consapevoli e non restare indifferenti. Per avere qualcosa di sensato da dire o da scrivere quando arriva il momento di dirlo e di scriverlo. Per capire quando è il momento di stare zitti e lasciar parlare chi ne capisce più di noi e supportare chi ne capisce più di noi nel nostro piccolo. Per scendere in strada a protestare per una ragione.

George Floyd non doveva morire. Punto. E noi non possiamo stare a guardare.

M.A.T.H.

gab.


Fonte: https://www.vox.com/

Fonte: https://www.vox.com/

Caro Gab,

nel suo libro Bob Dylan, pioggia e veleno, Alessandro Portelli fa riferimento a quell’incipit che accomuna molte folk song e ballate: “una mattina mi son svegliato”, “woke up this morning” e tutte le varianti. E’ proprio così che succede, non te l’aspetti, sei relativamente tranquillo ed ecco che il tradimento, il dramma, l’invasore, perfino il diavolo, ti entrano in casa. L’abuso di potere non è certo una novità, né negli USA né in qualsiasi altra parte del mondo, eppure lo sdegno per l’omicidio di George Floyd ha fatto irruzione ovunque con una prepotenza che dà speranza ma rivela anche un lato inquietante e amaro di una lotta che è ben lontana dal risolversi.

Pochi mesi fa piangevamo, uniti in uno splendido cordoglio umano e sportivo, la scomparsa del campione di basket Kobe Bryant. Beyoncé, Lizzo, Cardi B, Doja Cat, Kehlani, Megan Thee Stallion e Nicki Minaj si stanno prendendo tutto lo spazio in memoria nelle nostre librerie musicali. Barack Obama è stato il primo Presidente afroamericano a governare per due mandati consecutivi il paese la cui costituzione recita, prima di ogni altra cosa, “We the people”.

Mi viene da chiedere chi abbia quale particolare problema con quale precisa parte della popolazione. Provo a rispondermi, come hai fatto tu, attraverso l’analisi di chi ne sa molto più di me e sa parlare decisamente meglio di me.

Noi di Talassa abbiamo un debole per le cose dette bene, con cura e non necessariamente in sintesi. Francesco Costa, vicedirettore de Il Post è tra i maestri del genere e si occupa, come da biografia su IG, di spiegare l’America agli italiani. In questa intervista chiarisce il contesto sociale in cui è scoppiata la rivolta che sta colpendo gran parte delle città americane: un’America messa già a dura prova dai provvedimenti insufficienti adottati da Trump per arginare la minaccia del Covid-19. Inoltre Costa risponde alla domanda di cui sopra: com’è possibile tutto questo dopo l’America di Obama? 

Essere una minoranza inerme va a vantaggio degli oppressori. Dimostrare, invece, di avere le carte in regola per realizzare un sogno impossibile, raggiungere il successo e uscire da quell’apparentemente eterna condizione di oppressi, può essere l’incubo di chi ha costruito il suo impero sulla supremazia del debole. L’amministrazione Obama è stata vissuta dai conservatori, dice Costa, come un affronto, un atto intollerabile di arroganza. “Make America Great Again”, dice Trump, laddove quell’again sta a significare il ritorno ad un’America che, prima che qualcuno le mettesse in testa certe idee liberali, era, per certe menti distorte, grande. Non vinceranno, not again.

Ti lascio con la strofa finale di una delle più grandi canzoni di protesta:

Oh, what’ll you do now, my blue-eyed son?
Oh, what’ll you do now, my darling young one?
I’m a-goin’ back out ‘fore the rain starts a-fallin’, 
I’ll walk to the depths of the deepest black forest,
Where the people are many and their hands are all empty, 
Where the pellets of poison are flooding their waters,
Where the home in the valley meets the damp dirty prison, 
Where the executioner’s face is always well hidden,
Where hunger is ugly, where souls are forgotten,
Where black is the color, where none is the number, 
And I’ll tell it and think it and speak it and breathe it,
And reflect it from the mountain so all souls can see it,
Then I’ll stand on the ocean until I start sinkin’, 
But I’ll know my song well before I start singin’,
And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall.

Che cosa farai adesso, figlio mio dagli occhi azzurri?
Che farai adesso, mio caro figliolo?
Tornerò fuori prima che cominci a cadere la pioggia,
Entrerò nel profondo delle più cupe foreste,
Dove le persone sono molte e hanno le mani vuote,
Dove i proiettili avvelenati inondano le loro acque,
Dove la casa nella valle incontra una sporca e umida prigione,
Dove il volto del boia è sempre ben nascosto,
Dove la fame è orrenda, dove le anime sono dimenticate,
Dove nero è il colore, dove zero è il numero,
E lo dirò, e lo penserò, e lo annuncerò, lo respirerò,
E lo rifletterò dalla montagna, così che tutte le anime lo vedano,
Poi starò sull’oceano finché non comincerò a affondare,
Ma saprò bene il mio canto prima di cominciare a cantare,
E una dura, dura, dura, dura pioggia,
Una dura pioggia sta per cadere.

Perché non abbiamo mai paura di spingerci fin dove fa paura, ma dove è più giusto.

Ale

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