di Gabriele Naddeo La serie di interviste di Talassa dedicata ai professionisti del giornalismo musicale italiano nasce con l’intento di raccontare chi racconta la musica nel nostro Paese. Finora, siamo andati alla scoperta della canzone d’amore italiana con Giulia Cavaliere e a caccia del pop del futuro con Giorgio Valletta. Abbiamo esplorato la black culture con Francesco Abazia, parlato del ruolo dei media con Francesco Raiola e chiesto a Nur Al Habash di presentare Shesaid.so, commentando la nostra ricerca sul problema del gender gap nei festival italiani. Dopo aver folgorato il pop italiano con Stefano Di Trapani, oggi critichiamo la critica musicale con Emiliano Colasanti, fondatore (insieme a Giacomo Fiorenza) di 42 Records nonché una delle migliori penne del giornalismo musicale nostrano. Com’è cambiato negli ultimi dieci anni il ruolo di chi racconta la musica in Italia? Di fatto, esistono ancora i giornalisti musicali? La chiacchierata con Emiliano parte dalla diffusione dei blog negli anni Dieci e arriva ai servizi di streaming musicali. Non potevamo poi non parlare a lungo di podcast, considerando che lui ne ha iniziato da poco uno molto bello: Extra Podcast.
Era il 2011 e un artista a caso della 42 Records cantava “I critici musicali ora hanno il blog”. 2020: che cos’hanno adesso i critici musicali? Oddio, esistono ancora i critici musicali? Questa è la grande domanda. Vabbè, scherzando si potrebbe dire che hanno il podcast, però in realtà credo sia proprio cambiato quel mestiere lì. È sempre meno definibile e sempre più marginale.
Come mai?
Perché c’è stata un’evoluzione molto precisa, forse partita proprio dal momento della diffusione dei blog fino all’esplosione dei social network. L’idea della critica musicale che fa analisi è andata via via scemando e la promozione si è gradualmente sostituita alla critica. Probabilmente questo cambio è stato anche frutto della natura stessa del social, che tende a favorire la promozione più che l’analisi, ma in ogni caso è una direzione un po’ pericolosa. Perché spesso non si riesce a fare una distinzione tra contenuti che magari sono paragonabili all’advertising a pagamento e contenuti che invece sono critica pura.
Eppure di webzine, siti e blog dedicati alla musica ce ne sono parecchi in Italia. Però l’impressione è che stiano uscendo meno articoli di peso. O almeno che molti che prima scrivevano sulle riviste online si siano spostati nelle radio, sulle newsletter, anche nelle riviste cartacee o direttamente sui social.
I mezzi sono appunto mezzi e basta: ognuno può usare quello che gli è più congeniale. I linguaggi cambiano ed è anche giusto essere contemporanei al linguaggio che va per la maggiore, è una sfida interessante. Io credo che non sono tanto cambiati i posti dove si scrive, perché appunto di siti ce ne sono miliardi e continuano a fare quello che facevano prima. Certo non esiste più il blog come concetto, però appunto dato che ci sono vari siti o varie piattaforme dove si può scrivere e tutti possono leggere è come se in un certo senso esistesse ancora. Il punto secondo me è che se tu vai a guardare la maggior parte di quei siti musicali, per un articolo di analisi ce ne sono dieci acchiappaclick. Ha dominato la logica dell’acchiappaclick, quindi della soluzione più facile, del contenuto più immediato e che dà risultati immediati, tipo le liste, i dieci migliori dischi, video eccetera. A me piacciono anche le liste, le ho fatte anch’io, però penso sia davvero molto limitante un panorama in cui si parla di musica solo in questo modo. Poi ovvio c’è ancora chi fa critica, ci sono ancora spazi per fare critica e ci saranno sempre, però ecco mi sembra che si sia persa un po’ la voglia di fare analisi.
I podcast però stanno vivendo un momento particolarmente felice o sbaglio? È perché ci siamo stancati di leggere? Perché danno più spunti o hanno un impatto più immediato di un articolo?
Non lo so, anche perché in realtà se ci pensi non mi sembra che ci siano così tanti podcast italiani che parlano di musica, anzi mi sembra che ce ne siano proprio pochi. Ce ne sono alcuni che sono semplicemente delle evoluzioni di trasmissioni radio, che fanno ascoltare la musica, ma di podcast veri e propri che parlano di musica in Italia non ne vedo tantissimi.
Se ci pensi però all’estero si stanno moltiplicando e anche Spotify sta puntando molto su questo formato…
Certo, io mi riferivo solo alla realtà italiana. Diciamo che spesso vediamo i podcast come una cosa nuova, ma in realtà esistono da una vita. Mi ricordo che intorno al 2004/2005 avevo anche scritto un articolo, per un giornale femminile italiano che ora non esiste più, sui migliori podcast da seguire. Il podcast ora sta vivendo un momento felice perché è un media che esiste da tanto, che è stato molto sotto traccia per anni, però ha resistito e quindi è normale che prima o poi sarebbe cresciuto. In più secondo me è un po’ come le serie tv, no? Aumentando i mezzi si possono fare delle cose con i podcast che prima non si potevano fare. Adesso letteralmente con 100 euro puoi comprare un microfono figo, puoi avere il tuo home studio a portata di mano nel pc e hai tante capacità espressive davanti a te. Ed esattamente come a un certo punto le serie tv sono diventate un linguaggio forte, contemporaneo, lo stanno diventando i podcast adesso. Però ripeto è una cosa che arriva veramente da lontano e io non so perché funzionano, so perché piacciono a me, magari.
E perché a te piacciono?
Innanzitutto perché secondo me in fondo podcast in qualche modo vuol dire radio e la radio è una cosa che fa parte della vita di tutti, da sempre. Magari però in un momento in cui le radio sono diventate solo flussi di musica e basta – tra l’altro mandando tutte esattamente la stessa musica – il podcast è perfetto per chi ha voglia di una radio parlata, di approfondimento. O almeno a me per questo piace molto. Sono fan di un sacco di podcast di tanti argomenti diversi: dalle storie del professor Barbero a podcast inglesi o americani di musica, ne ascolto tantissimi davvero. Poi sicuramente mi piacciono perché prima di questa storia del coronavirus viaggiavo moltissimo e mentre ero in viaggio avevo più piacere a sentire un podcast piuttosto che sentirmi i dischi interi. Avevo i miei appuntamenti fissi: è bello sapere che quel giorno preciso esce la nuova puntata e che prima o poi la ascolterò.
E qui torniamo al paragone con le serie tv…
Sì, fai conto che ci sono stati dei podcast che erano delle vere e proprie serie. Penso al celebre Serial, ma anche a Veleno in Italia. Più che podcast potremmo chiamarli quasi radiodrammi, come li chiamavano negli anni ‘50. Ecco io una cosa del genere la trovo molto più appagante del modo in cui si parla sulla stampa mainstream. Trovo molto più interessante sentire come si parla di calcio su un podcast come La riserva piuttosto che guardare una trasmissione in tv. La riserva, o chi per loro, ha un modo di parlare di calcio che è più simile al modo in cui io voglio sentire parlare di calcio.
In generale, secondo me la radio ha anche un modo di affrontare le cose che è più simile a quello che leggo fuori dall’Italia. Diciamo che l’Italia ha spesso un modo un po’ cristallizzato di affrontare determinati argomenti. Continuo con l’esempio dello sport. Lo sport da noi è solo narrazione del qui e ora, narrazione dell’agonismo. A parte alcuni casi, tipo Federico Buffa che racconta le storie, il resto è solo racconto del gesto atletico immediato. Non c’è approfondimento e non c’è voglia di raccontare quello che c’è dietro il gesto atletico in una maniera più analitica o semplicemente meno diretta, più ampia.
Mi hai fatto pensare a un podcast come Dissect che appunto viviseziona gli album minuto per minuto.
Sì esatto, quello poi, per dire, per me è il sogno di tutti i nerd. Dissect è fighissimo, ma appunto dipende da che tipo di persona sei. E io sono uno che quando ascolta i dischi vuole approfondire il più possibile, quindi è perfetto. Mi viene anche in mente la mini serie sui Clash narrata da Chuck D dei Public Enemy, uscita l’anno scorso e prodotta da Spotify in partnership con la BBC. È una bomba e se senti una cosa del genere ti accorgi anche che c’è una linea di continuità. Perché i Clash rappresentano una concetto e i Public Enemy rappresentano in qualche modo l’evoluzione di quel concetto. Ecco il podcast può fare anche questo: mettere mondi a contatto. Pensando ad altri podcast nerd sulla musica poi non posso non citare Sorcerer’s Orphan, il programma di Steven Drozd dei Flaming Lips – di cui sono un grande fan – dedicato alle canzoni dei Flaming Lips, tra aneddoti, contributi e storie sulla band.
E invece come è nata l’idea per il tuo podcast? Perché a un certo punto hai quasi smesso di scrivere e sei passato alla radio?
Ecco io sono uno che ha dovuto un attimo cambiare media innanzitutto per ragioni di tempo. Perché il lavoro come manager e discografico ha un po’ mangiato il mio ruolo da critico musicale. Poi ammetto anche la difficoltà che ho nel trovare un nuovo posto dove andare a scrivere, perché comunque io stesso mi sento limitato da cosa posso fornire in questo momento e non mi voglio ritrovare in questioni di banale conflitto d’interessi, visto che mi occupo di artisti. Poi diciamo che non ho voglia di ricominciare a dover costruire la mia nicchia, mettendomi a spiegare che non parlo di musica italiana eccetera. Però ammetto che mi manca tantissimo scrivere con regolarità e quando mi chiedono che lavoro faccio io dico sempre il giornalista musicale.
Però ecco volevo comunque fare qualcosa in quest’ambito e l’idea di Extra Podcast è venuta fuori, tra le altre cose, anche perché sono un grande fan di What A Fuck (WTF), il podcast di Marc Maron, attore americano che è anche parte del cast di GLOW su Netflix. What A Fuck si basa su un’idea semplicissima: per ogni puntata c’è un’intervista a un personaggio. Poi vabbé gli ospiti naturalmente sono pazzeschi. Per farti capire: a What A Fuck ci è andato Obama, oppure Di Caprio e Brad Pitt insieme, il pomeriggio prima della notte degli Oscar. Però il bello è che Maron riesce sempre a mantenere il tono della chiacchierata, più che dell’intervista ingessata classica e mi piaceva l’idea di fare un programma su questo stile.
Questa cosa la si nota molto anche nella tua prima puntata con Coez, effettivamente: il tono è molto rilassato e sembra quasi un discorso tra amici…
Infatti all’inizio le prime persone che ho contattato per questo programma sono in fondo miei amici. Ovvero persone che stimo come artisti, ma con cui ho anche la confidenza per andare a casa loro e fare una chiacchierata. Pensa che prima di tutto il casino del coronavirus l’idea del format era di andare a fare le interviste direttamente a casa degli artisti. C’era anche una puntata già in programma con un cantautore – non posso dire chi – in cui andavo a casa sua, cucinavamo insieme e il podcast veniva fatto mentre si cucinava. Però diciamo che nella sfiga alla fine la cosa interessante è che il programma si sta trasformando anche in una sorta di racconto della quarantena vista dai musicisti.
Come poi si capisce già con la seconda puntata, quella con Brunori…
Sì e devo dire che sono molto orgoglioso di quella puntata, avvenuta appena due giorni dopo il lockdown. Perché, appunto, pur mantenendo sempre il format della chiacchierata tra amici, si è parlato anche di questo tema in una maniera molto sentita, considerando che io ho un’etichetta, lui è un artista ed entrambi, seppur in modi diversi, siamo vittime di una situazione di crisi che nel nostro settore sarà abbastanza drammatica. Dario se non sbaglio quel giorno lì annunciava lo spostamento del suo tour a novembre e l’idea che tu hai lavorato per tanti mesi a un progetto che poi non sai quando e se si farà è abbastanza devastante. Ovvio che abbiamo tutti altri problemi e cose più importanti di cui occuparci in questo momento, ma il mondo della musica non è fatto solo di label e artisti. Ci sono tutti quelli che lavorano dietro le quinte e il cui guadagno è proporzionale a quanto vanno in tour. Se magari una persona ha programmato di dover lavorare a 25 date per potersi pagare l’affitto e poi fa zero date capisci che è un problema serio.
Restando in tema di crisi e settore musicale, mi interessava sapere il tuo parere su un argomento decisamente meno importante, ma che mi incuriosisce molto: la crisi delle recensioni. Al contrario dei podcast, si dice continuamente che le recensioni sono finite, ma intanto le testate grosse continuano a pubblicarle e gli uffici stampa o gli stessi artisti a chiederle. Però è vero che le recensioni hanno perso importanza rispetto al passato. Tu le leggi?
Dipende. Una cosa che secondo me è finita è la recensione inutile di quattro righe che non approfondisce niente e che spesso è la crasi di un comunicato stampa. Una roba fatta così credo che non sposti veramente nulla. Anche dal punto di vista dell’impatto delle vendite di un disco, le recensioni contano davvero poco in questo momento. Paradossalmente, conta più una stroncatura ben fatta che una buona recensione, il che è assurdo, ma è così. Poi più in generale secondo me il discorso – che mi farà sembrare un po’ uno stronzo già lo so, ma tant’è – è che se pensi alla critica letteraria e alla critica d’arte in qualche modo sono considerate un genere stesso della letteratura e dell’arte. Come se fossero nobili al pari della letteratura e dell’arte. La critica musicale invece non è mai riuscita ad arrivare a quel livello, un po’ perché è sempre stata la figlia povera di tutto, un po’ perché quando c’è stata la diffusione di internet e la “democratizzazione” della critica musicale è passato il concetto che chiunque avesse dischi in casa o la curiosità di ascoltare dei dischi potesse scrivere di musica. Il risultato è che abbiamo avuto e che abbiamo una quantità di siti spropositata e una quantità di recensioni scritte male da gente che non aveva, secondo me, gli strumenti per poterle scrivere.
Questa cosa l’avevi anche accennata nell’intervista con Francesco Farabegoli su Bastonate. Diciamo che non è raro vedere un post su Facebook acchiappalike e scritto malissimo che abbia molto più esito di un articolo…
Però secondo me dipende tutto da cosa si fa e come lo si fa. Su Facebook si possono dire cose molto interessanti e vedo gente che lo fa senza problemi. Però c’è anche l’altra faccia della medaglia, che provo a spiegarti con un esempio. Mi capita di far parte, un po’ per lavoro e un po’ per curiosità, di una serie di gruppi Facebook di persone che seguono la musica, tipo il rap o l’indie attuale. C’è un meccanismo fisso in questi gruppi che mi stupisce molto. Funziona così: esce un disco di un artista e una persona che è influente in quella community dice un commento che non c’entra un cazzo. Però quella frase lì diventa ciò che caratterizzerà il disco di quell’artista da quel momento in poi. In più, quella frase poi esce dalla community e finisce per diventare una sorta di verità assoluta. Come dire che io ho un slang che capiscono solo quelli del mio gruppo, però alla fine parlo con quello slang anche fuori dalla community, perché vivo a 360 gradi là dentro e per me il mondo è quello e basta. È la famosa storia della filter bubble e di tutto ciò che comporta: l’idea che il mondo inizi e finisca nel nostro circoletto. In questo senso, si sta creando un pubblico strano: noto che adesso c’è tutta una categoria di appassionati di musica per cui è importante solo il qui e ora e non interessa niente approfondire cosa c’era prima, non interessa il passato. Così magari esce un disco di un cantautore italiano contemporaneo che è molto vicino a Battisti e viene considerato come originale. Poi qualsiasi altro disco futuro di cantautori italiani che in qualche modo si rifanno a Battisti in realtà viene ricondotto all’altro cantautore contemporaneo. Ecco questa cosa mi fa un po’ ridere.
Hai messo in mezzo il passato, allora parliamo di passato: a te cosa manca della critica musicale rispetto a dieci, quindici anni fa e cosa credi sia migliorato? Come sono cambiate le tue abitudini da lettore, ancor prima che da giornalista?
Secondo me il fatto che ci siano più voci è senza dubbio interessante. A mancare è quello che accennavo prima: c’è poca gente che prova a fare analisi, ad approfondire. Da lettore, tornando al discorso delle recensioni, posso dirti che le leggo ancora, però tendenzialmente piuttosto che leggerne mille preferisco leggerne tre di due pagine. Preferisco l’articolo approfondito, che so, del Guardian, di The Quietus o Pitchfork – poi ognuno ha i suoi canali di riferimento – piuttosto che una roba breve. Poi devo dire che spesso leggo le recensioni in Italia perché io scrivo personalmente i comunicati stampa dei dischi che produco e mi piace infarcirli con paragoni volutamente iperbolici, così poi mi diverto un casino a leggere le recensioni che escono e vedere in quanti hanno ripreso quello che ho scritto io.
Come se fossero degli easter eggs, fantastico. Senti, hai detto che ognuno ha i suoi canali di riferimento. I tuoi quali sono? Una volta hai scritto una cosa in cui mi sono rivisto molto: ovvero che stai scoprendo un sacco di nuova bella musica su Bandcamp. Ecco, cos’ha Bandcamp che altri siti non hanno? Perché ti interessa quella realtà lì?
Quello che ha Bandcamp secondo me è che è una vera piattaforma editoriale. Nel senso: la linea di Bandcamp la decide veramente chi lavora lì, si occupa dei diversi generi e segue molto il proprio gusto. In questo senso, seguendo il blog di Bandcamp sembra un po’ quando seguivi le riviste, imparando a conoscere i giornalisti e capire che gusti avevano. Su Bandcamp – a differenza di altre piattaforme dove le playlist sono comunque editoriali però sembrano essere redatte da logiche più simili a quelle delle radio – sembra veramente che al centro di tutto ci sia la musica e non la notorietà del determinato progetto. Tra l’altro, di Bandcamp mi piacciono molto i recap di fine anno divisi per genere: si possono scoprire cose veramente interessanti. Poi stiamo parlando comunque di una piattaforma che è molto vicina agli artisti e alle label. Il fatto che in questo periodo hanno rinunciato ai loro introiti devolvendo tutto a artisti e etichette ne è un esempio. Per il resto, di canali ne seguo moltissimi. Sono uno che ancora legge Pitchfork, anche se lo trova molto meno interessante di un tempo, mi piace molto The Quietus e il suo essere così edgy, seguo The Fader per le uscite magari più elettroniche e più urban…
A proposito di The Fader, non posso fare a meno di chiederti una cosa. L’estate scorsa loro hanno dedicato una copertina a Megan Thee Stallion. Idem, Jon Caramanica ne ha parlato molto nel suo Popcast (New York Times), così come hanno fatto altri podcast e altre testate. In Italia: zero. Ti dico solo che su Talassa abbiamo pubblicato il primo articolo italiano su Megan Thee Stallion in assoluto e, voglio dire, siamo comunque un sito di nicchia. Stiamo parlando di un’artista di talento e di un personaggio incredibile: come è possibile?
Questa è una cosa veramente strana, sono d’accordo, tra l’altro mi hai fatto venire in mente un discorso che si riallaccia a quello che dicevo prima e che non ho detto. Uno dei grandi problemi della critica musicale italiana (ma anche dei lettori) è che è molto orientata verso il rock e si fa ancora molta fatica a capire gli altri linguaggi. Per dirti: qualche settimana fa c’è stata una polemichetta Facebook – quindi una roba che vale zero e conta zero eh, però mi ha colpito – il giorno dopo che è stato annunciato il tour americano di New Order e Pet Shop Boys insieme. Diversi critici musicali italiani hanno cominciato a indignarsi del fatto che venivano accostati “quella merda” dei Pet Shop Boys agli “ex Joy Division” eccetera eccetera. A me piacciono entrambi, ma non è questo il punto: se tu senti come la stampa musicale inglese dagli anni ‘80 in poi parlava dei Pet Shop Boys e lo confronti con la stampa musicale italiana è allucinante. Cioè per la stampa musicale britannica e americana i Pet Shop Boys sono tipo gli Smiths dell’elettronica, per i testi, per l’immaginario melodico. In Italia: musica di merda, perché magari non avevano basso, chitarre e batteria.
Quindi il tema che hai toccato tu è fondamentale e proprio per non fare lo snob del cazzo cito una cosa veramente commerciale al riguardo: io non credo che Kendrick Lamar sia un grande rapper, ma credo sia uno dei più grandi artisti contemporanei viventi. Ecco, a me piacerebbe leggere dieci pagine su Lamar in Italia. O su Frank Ocean. E questa cosa non la fa nessuno e nessuno li mette in copertina. Stiamo parlando di Kendrick Lamar, non di un artista alternativo. Ecco, alla fine le webzine secondo me hanno questo compito qui: se ne dovrebbero fottere di parlare tutte delle stesse cose solo perché fanno i numeri, ma dovrebbero seguire la logica di cosa piace ai redattori. Per me più parli di un tema di cui non parla nessuno e più sei figo, io ragiono così. Poi è giusto che la stampa mainstream si occupi più o meno delle stesse cose perché segue l’onda, però ecco quello è il compito della stampa mainstream. La stampa specializzata, lo dice la parola stessa, dovrebbe focalizzarsi su argomenti specializzati. Io questo voglio: specializzazione, non voglio superficialità. Invece mi sembra di trovare molta superficialità.
Il problema però è che spesso in Italia la stampa mainstream segue solo e soltanto fenomeni grossi. Avevi scritto anche un post su Facebook al riguardo, parlando dell’ultimo disco di Andrea Laszlo De Simone.
Sì perché qualche giorno fa è uscito all’estero il nuovo disco di Andrea Laszlo De Simone e in Francia è stato accolto in un modo incredibile: ne stanno parlando tutti i media più grossi, lo stanno passando le radio più grosse. Non ti dico dove dovevamo fare il primo live in Francia. In Italia, nonostante lui piace molto alla stampa, uscire su un quotidiano è impossibile. Ci dicono che è troppo piccolo, che non fa numeri e cose del genere. Libération gli ha dedicato due pagine, Le Monde una, ma in Italia è impossibile. Perché in Italia purtroppo si fa poca proposta culturale. Non è che Le Monde o Libération parlano ogni giorno di nuove proposte, ma su sette giorni di uscite, un giorno lo dedicano a qualcosa di nuovo. In Italia la stampa mainstream segue i fenomeni, punto. Allo stesso modo, Andrea è in classifica su Spotify in Francia, pensa che sta andando bene anche in Turchia, e in Italia su Spotify non siamo mai riusciti ad ottenere uno spazio importante. Perché, testuale: i brani durano troppo, la musica non è in target eccetera.
Ecco a proposito di Spotify, nello stesso post dici che: “i numeri si sono completamente mangiati la cultura e il bello è che ti fanno credere che sia così ovunque. E invece col cazzo che è cosi”.
Questo è un mio pallino: io sono convinto che se Spotify togliesse il numero degli streaming dall’occhio pubblico sarebbe tutto più semplice e migliore. In Inghilterra e negli USA Apple Music ha superato Spotify e uno dei motivi per cui l’ha fatto è che proprio perché non hanno numeri visibili possono essere un po’ più arditi nelle scelte musicali. Ora io non critico Spotify che fa benissimo il suo lavoro, però è evidente che alimenta un sistema in cui alla fine funzionano solo i brani che fanno stranumeri e non c’è spazio per chi i stranumeri non li fa. A me la cosa che colpisce molto è che viviamo in un’epoca in cui, parliamoci chiaro, è facile contraffare questi numeri. E lo sanno tutti. Io non è che sto dicendo che tutti barano, perché non penso che sia così, ma credo che esista la possibilità di barare con i numeri e basta vedere che ci sono artisti che hanno milioni di streaming e non fanno un concerto. O quando fanno i concerti vanno 30 persone a vederli, quindi c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che esiste su determinati canali ma non nel mondo vero e lo sanno tutti che questi numeri sono gonfiabili, basta scrivere su Google e ti viene spiegato come si fa, basta pagare essenzialmente. Non può esistere la dittatura dei numeri quando già sai che i numeri non sono totalmente veri. Che poi, anche senza barare, per fare i numeri in certi casi basta anche solo fare dei featuring. Perché spesso i feat. si fanno solo per far salire il numero di ascoltatori mensili di entrambi gli artisti, così i numeri si moltiplicano per due. Poi i numeri di streaming visibili non ce l’ha solo Spotify, sia chiaro, ma anche YouTube per esempio. Il punto è che noi sappiamo di questa situazione, ma siamo comunque lì a dargli retta. I numeri sono importanti eh, sono il primo a dirlo, ma non sono l’unica cosa.