di Benedetto Puccia
grafiche di Marta Pianta
Nelle ultime settimane l’emergenza del coronavirus COVID-19 ha portato musei, gallerie d’arte e istituzioni culturali a ricorrere a social media, viewing rooms e alle più disparate modalità di comunicazione online per rimanere in gioco nonostante la situazione di crisi, ormai mondiale. Chiamiamola così: una corsa agli armamenti digitali. I risultati sono stati altalenanti, tra ottimo riscontro del pubblico, grande flop, silenzio stampa, silenzio assoluto. La questione mi interessava parecchio così ne ho approfittato per scambiare due chiacchiere con una persona che lavora da tempo in ambito culturale con il digitale: Eleonora Rebiscini.
Ciao Eleonora, presentati pure ai lettori Talassa!
Ciao Talassa! Sono una storica dell’Arte con le mani in pasta nel Digital Marketing, o almeno questo recita la mia bio su Instagram, più o meno. A parte gli scherzi: ho una formazione accademica da storica dell’arte ed una formazione professionale da digital marketer. Fin dagli anni dell’università infatti ho lavorato nell’e-commerce di famiglia, imparando a gestire i social media e l’universo dell’advertising online, dall’email marketing alla pubblicità su Google e Facebook. Ad oggi riesco ad unire entrambi questi settori e faccio consulenze per artisti e piccoli business legati all’arte in ambito comunicazione, brand identity e social media.
Uno dei tuoi progetti è Feci D’Artista e mi interessava capire come sia nato. Essendo un format editoriale davvero particolare, ti va di raccontare anche i primi mesi di sviluppo?
Feci d’Artista nasce quasi per caso sulla mia pagina Instagram personale un anno fa. Una mia amica stava andando a fare un colloquio di lavoro e mi spiegava come avesse veramente apprezzato il suo stage presso una nota società romana in cui aveva avuto modo di diventare una exhibition manager a tutti gli effetti. Le avevo chiesto di fare un video in cui spiegare ai miei followers la differenza fra exhibition manager e curatrice e lei ha accettato. Da quel momento, anche grazie ai numerosi messaggi in privato che ho ricevuto, ho deciso di chiedere ad alcuni amici di condividere le loro esperienze di lavoro nel settore culturale.
Ho sempre avuto delle opinioni decise verso il mio settore di riferimento: so benissimo che versa in una situazione di totale difficoltà, ma so anche che molte persone tendono ad arrendersi alla situazione, senza davvero prenderla in mano. Mi piaceva l’idea di un progetto che parlasse in modo propositivo del settore culturale e non negativo, di rifiuto verso l’azione. L’idea ha funzionato ed è diventata una pagina Instagram, curata da me a livello di contenuto e da Marta Pianta a livello grafico. Sta per finire la seconda stagione e siamo entrambe molto contente del risultato. Non è da tutti avere quasi 800 follower completamente organici e ottenuti solo grazie alla condivisione di contenuti di valore, senza alcun tipo di tecnica speciale per aumentare l’engagement.
Il progetto ha sin dall’inizio sviluppato un’identità grafica ben precisa, ma che nel tempo è leggermente cambiata. I lavori sono di Marta Pianta, mi chiedo però come abbiate lavorato insieme. Come decidete di ideare e portare avanti il progetto?
Io e Marta siamo diventate amiche, ma ci credi che ci siamo viste solo due volte in quattro anni? Una è a Bologna e l’altra a Grosseto. Tuttavia ci seguivamo su Instagram e a me è sempre piaciuto il suo modo di vedere il mondo attraverso le sue fotografie e le sue grafiche. Abbiamo iniziato con le Skype call in cui io le spiegavo come si comunica su Instagram e lei mi dava consigli sul mio blog, su come rendere piacevoli a livello grafico le mie idee (Feci d’Artista è stata solo una di queste).
Poi è iniziato Feci d’Artista: io avevo in mente di creare la pagina da un po’, ma mi ero ripromessa che senza un’identità grafica ben precisa, riconoscibile, non lo avrei mai fatto. A Marta è piaciuta l’idea e adesso siamo molto sincronizzate: io metto in un excel il piano editoriale e lei mette in una cartella le foto con i post numerati. Ogni tanto ci sentiamo su Telegram, ma ormai sa come lavoro: a lei basta che io abbia una cartella in Google Drive iper organizzata ed è felice. A me basta sapere che lei una volta a settimana faccia i 3 post che le spettano, e sono felice pure io.
In una recente diretta Instagram, hai accennato ai cambiamenti fatti in corso d’opera. Ti va di raccontarci qualche episodio in particolare?
Con Marta siamo molto rispettose l’una del lavoro dell’altra: io le spiego sempre come voglio che venga percepito il progetto dal pubblico di riferimento e le dico la mia idea in testa. Lei ha sviluppato dapprima il logo di Feci d’Artista – dove l’omaggio alla Merda di Manzoni per me era assolutamente necessario. Proprio come noi ad oggi non sappiamo se lui effettivamente ha inserito le sue feci in quella scatoletta, allo stesso modo gli studenti delle materie storico-artistiche non sanno cosa trovare dentro la scatola del mondo del lavoro una volta laureati. Marta ha fatto questa scatola che rappresenta un po’ il mio valore principale: rendere l’arte pop, mainstream, in modo tale che sia comprensibile e aperta a tutti. Era la prima volta che lavoravamo insieme e quando devo spiegare a qualcuno cosa mi piace, utilizzo molto la pop art come termine di paragone.
Nella seconda stagione Marta invece si è imposta un po’ di più: non le piaceva la grafica della prima stagione, non la rappresentava più e mi ha detto che avrebbe voluto darle un taglio adulto, ma pur sempre creativo e colorato. Io l’ho lasciata fare e aveva ragione (ma questo non glielo dico spesso): adesso anche io approvo questo taglio grafico che poi rispetta i contenuti di questa seconda parte, dove hanno partecipato imprenditori digitali, artisti di spessore, art sharer e professionisti che lavorano in case d’asta. Insomma, stiamo diventando adulti e ce la stiamo facendo (un altro messaggio positivo che mi piace sottolineare con i fatti raccontati dalle persone, non con le belle parole).