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Cara Ale,
Ci tocca: la puntata sul festival di Sanremo. In realtà non è che ci tocca per forza perché nessuno ci obbliga a fare niente, ma la verità è che fino a un certo punto mi interessa molto parlare del festival della canzone italiana. Considerando che però ci siamo fatti già una panza così sulle canzoni, le esibizioni, le gaffe, le polemiche e i meme, mi piacerebbe parlare del festivál da una prospettiva diametralmente opposta: quella più fredda ma più ragionata dei dati e delle statistiche.
La domanda legittima da cui partirei è: qual è il peso del festival di Sanremo in Italia? Ma anche: Sanremo ha futuro? I comunicati stampa della Rai sbandierano record a tutto spiano. Di share televisivo (che all’ultima serata ha raggiunto il 60.6%) e di numero dei telespettatori: circa 11 milioni e 477mila persone hanno visto la finale nel 2020, contro i 10 milioni e 622mila dell’anno scorso (e il 56.5% di share). In più, stando a quanto affermato dai vertici Rai, anche i ricavi dagli spot pubblicitari sono aumentati: 37 milioni circa nel 2020, 31 milioni nel 2019.
Sembrerebbe che le cose al festivál non vadano affatto male, però c’è un però. Secondo un sondaggio di quest’anno del Sole24ore il festival ha una certa popolarità tra chi ha più di 35 anni. Invece, circa il 60% di chi ha tra i 18 e i 24 anni non ha visto nemmeno un’edizione della kermesse nell’ultimo quinquennio. Considerando il tipo di proposta musicale presentata a Sanremo non c’è da stupirsi: perché un 18 enne dovrebbe sorbirsi una carrellata di canzoni demodé (e nella maggior parte dei casi scadenti), interrotte qua e là dalle quote giovani del festival, quando i suoi artisti preferiti sono a portata di Spotify, YouTube, Instagram stories e quant’altro? Ancora di più se si pensa che questi artisti, spesso coetanei (vedi Capo Plaza, tha Supreme e Shiva) macinano milioni di views sulle piattaforme di cui sopra.
A questo punto mi verrebbe da pensare che la strada ”inaugurata” da Achille Lauro potrebbe essere la carta del Sanremo del futuro per continuare ad avere un certo appeal su un pubblico giovane (aka: sopravvivere). Puntare su artisti che hanno un certo peso sui social, pompare il lato ”spettacolare” delle esibizioni, magari diventare sempre più kitsch e pomposo, come quell’Eurovision Song Contest che, a suo tempo, proprio a Sanremo si ispirò. Il rischio, manco a dirlo, è che non tutti sono Achille Lauro (che ha salvato l’edizione 2020 dalla noia totale) e a soffrirne sarà probabilmente l’unica cosa che dovrebbe interessarci davvero: le canzoni.
Saluti freddi ma ragionati,
gab.
Caro Gab,
intanto le cose importanti. Venerdì sera, probabilmente proprio mentre Morgan sta litigando con Bugo, apprendo da Albert Hammond Jr. (via IG, ahimè) che è in arrivo il nuovo album di The Strokes. “You think you’ve been waiting, but the wait has just begun… Welcome to t h e n e w a b n o r m a l“. Il tutto accompagnato dall’immagine di “Bird of money” di Jean-Michel Basquiat. Poco hype, poca pressione, poche aspettative.
Così ho condiviso la notizia su fb, il social network dei vecchi, e non ho riscontrato salti di gioia. Ne è emerso che:
– ho più amici fan di “canzoni demodé (e nella maggior parte dei casi scadenti)” che non degli Strokes
– fare gli opinionisti è più divertente che entusiasmarsi per l’uscita del nuovo album di una band di qualità
– ha ragione il Sole24ore e il festival va forte tra i trentenni senza escludere quelli che, dicendo “non ho la televisione” (non meno di due anni fa e peraltro proprio durante la settimana di Sanremo) pensavano gli venisse recapitato un Nobel a casa.
Soprattutto l’ultimo punto mi stuzzica parecchio. Cosa è cambiato? Di sicuro il popolo dei piccoli club, fatto perlopiù di trentenni, l’anno scorso si è riunito attorno a Motta e Zen Circus e perfino i più puri nonholatelevisionisti sono stati contagiati dalla voglia di competere con gli sfigati made in Amici di Maria De Filippi. Proprio in quell’occasione devono aver scoperto una cosa chiamata leggerezza e in vista della 70^ Edizione del Festival della Canzone Italiana hanno deciso di replicare, dando perfino del genio ad Achille Lauro, di cui personalmente io amo più la versione greve da sobborgo romano di cui abbiamo goduto soprattutto durante l’edizione di Pechino Express, che non questa veste attuale da volontario all’interrogazione di storia del costume (dai, nelle interviste non si può sentire).
Il futuro del festival non saprei prevederlo, dipende da tantissime cose tra cui anche la direzione che prenderà la conduzione dei programmi tv. Si sono susseguiti i direttori artistici più vari: cantanti, cantautori, dinosauri, king dei quiz. La Rai non abbandona la old school della conduzione ed è sempre un po’ stridente vedere un Amadeus presentare un Ghali. Ne risulta un’accozzaglia di stili, quasi epoche, una confusione generata da una cultura, la nostra, che vive a compartimenti stagni tra tv e internet che sviluppano fenomeni che, troppo a lungo, l’una ignora dell’altro.
Sicuramente Sanremo evolverà e di sicuro lo farà in qualcosa di comunque sgangherato, poiché quello è l’aspetto che più coinvolge il pubblico. Non il gusto del trash, dietro il quale si nascondono in molti, ma il bisogno di una leggerezza che non so perché ai più risulta difficile da riconoscere e, soprattutto, da ammettere.
Saluti scialli, easy, leggeri, fluid ma soprattutto complimenti a Diodato e auguri a Morgan,
Ale
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