di Gabriele Naddeo
La serie di interviste di Talassa dedicata ai professionisti del giornalismo musicale italiano nasce con l’intento di raccontare chi racconta la musica nel nostro Paese. Finora, siamo andati alla scoperta della canzone d’amore italiana con Giulia Cavaliere e a caccia del pop del futuro con Giorgio Valletta. Abbiamo esplorato la black culture contemporanea con Francesco Abazia e chiesto a Nur Al Habash di presentarci Shesaid.so, commentando la nostra ricerca sul problema del gender gap nei festival italiani. Devo dire che il bello di intervistare chi solitamente è abituato a ricoprire il ruolo dell’intervistatore è che le parole non mancano mai e i temi da approfondire vengono fuori con una naturalezza disarmante. La chiacchierata di oggi non fa eccezione, anzi. Francesco Raiola – capo area musica di FanPage.it – mi perdonerà per la telefonata-fiume, ma le domande si sprecano quando si parla del ruolo dei media, di musica di nicchia e musica mainstream, artisti di culto e futuro del giornalismo musicale. L’intervista non poteva che partire da Napoli e ritornare a Napoli, considerando che è la città dove il giornalista (di Torre del Greco) si è formato professionalmente e che oggi – tra lavoro con FanPage e presentazioni con artisti alla Feltrinelli – lui contribuisce a raccontare.
Quando hai cominciato a scrivere di musica? Mi racconti delle tue prime esperienze come giornalista nel settore?
Ho cominciato verso i 19 anni in un giornale napoletano, La verità, per prendere il tesserino da pubblicista: mi occupavo principalmente di spettacolo. Poi è arrivato Freakout, una rivista che nasce a Torre del Greco, mia citta di origine, e che è stata ed è fondamentale per chi è cresciuto da queste parti. Giulio Di Donna – fondatore della rivista e uno dei nomi storici della musica napoletana – mi chiese se volessi scrivere qualche articolo per loro. Da sporadica, la collaborazione è poi diventata continua fino al 2008, anno in cui mi sono trasferito a Parigi. Lì mi occupavo più di giornalismo in senso lato che di musica in particolare. Scrivevo per un giornale francese, AgoraVox, insieme a Francesco Piccinini, attuale direttore di FanPage. La musica però è stata in qualche modo sempre presente: avevo una rubrica su Valigia Blu, ho continuato a collaborare con Giulio di Donna con l’ufficio stampa Hungry Promotion…
Poi è arrivato FanPage, giusto?
Esatto. Ho la fortuna di essere arrivato qui quando il giornale stava vivendo una nuova fase. Ricevetti una chiamata da Gianluca Cozzolino, fondatore di FanPage. Si stava riorganizzando tutto l’aspetto editoriale e a me si chiese di gestire la sezione musica, di farla crescere insieme al giornale.
Qual è stata la tua formula per far crescere l’area musica di FanPage? Hai avuto modo di dare spazio anche ai tuoi ascolti?
Secondo me è fondamentale capire una cosa: quando scrivi per un giornale generalista metti te stesso un attimo in secondo piano. Anche perché sarebbe impossibile – e anche ingiusto direi – parlare solo di determinati temi che ti stanno a cuore. Ci sono tanti artisti che non ascolto per piacere personale, ma di cui credo che valga la pena parlare. Prendi Marco Mengoni, uno dei fenomeni del pop italiano. Non lo ascolto in auto e non rientra nei miei gusti, ma non posso non riconoscere la sua importanza nel contesto della musica pop nazionale. In ogni caso su FanPage la sfida è stata anche quella di presentare a un pubblico generalista artisti meno noti e di farlo nel modo che ci sembrava più adatto. Quando sono arrivato in redazione, per esempio, esisteva già il format video di FanPage Town, dedicato agli artisti italiani. Ecco, la rubrica video è stata sicuramente un modo interessante e efficace per presentare al pubblico di FanPage artisti come Colapesce, Iosonouncane, i Thegiornalisti in un momento in cui non erano noti al grande pubblico. Idem per raccontare la scena rap/trap.
A proposito di raccontare la musica e artisti meno noti a un pubblico generalista: ci sono una serie di gruppi e artisti napoletani che non sono ancora così noti al grande pubblico, ma che sono musicisti di “culto”, che hanno influenzato e fatto scuola. Penso ai Valderrama 5 e Dino Erre (Gaetano Scognamiglio), che oggi è nel gruppo di Calcutta. O ai Fitness Forever, in cui, fra i tanti, hanno suonato anche Alfredo Maddaluno e Carola Moccia…
Prima che da giornalista se tocchi questo argomento, ti parlo innanzitutto da adolescente. Lo dico sempre scherzando, ma neanche troppo in realtà: la mia vera formazione musicale è stata “a casa”, nella scena di Torre del Greco, dove per esempio Gaetano Scognamiglio suonava nei The Preachers, ancora prima di formare i Valderrama 5. Gateano è una delle teste più geniali che abbiamo in Campania. Non a caso è stato pubblicato dalla Elephant Records. Lui è stato sicuramente una delle persone più sensibili in quanto a musica pop, nell’accezione più alta possibile del termine. Lui come i Fitness Forever: una band che a mio avviso ha raccolto ancora troppo poco rispetto a quanto meritato. Tra l’altro, sia Gaetano che i Fitness vengono sempre citati da Erlend Øye (Kings of Convience, The Whitest Boy Alive): sono tra i suoi artisti preferiti in Italia.
Secondo te esistono ancora artisti di “culto”, come i Valderrama 5? Anzi, in un momento in cui i “confini” tra mainstream e indipendente si fanno sempre più labili, cos’è diventato il culto? Cos’è diventata la nicchia?
Diciamo che il paragone anche solo con dieci o sette anni fa lascia un po’ il tempo che trova. La musica è cambiata completamente anche a livello di distribuzione, oltre che di fruizione. All’epoca, per esempio, c’erano gruppi che duravano a lungo, rispetto forse a ciò che succede oggi. Qual è oggi la scena alternativa, la scena cult, dici? Questa è una domanda che mi pongo praticamente ogni giorno. Secondo me ci sono artisti che per un motivo o per un altro ancora non hanno ottenuto una serie di successi, però la risposta è che tanto è dovuto ai cambiamenti di questi anni e – sia chiaro – è un’analisi, non un “si stava meglio quando si stava peggio”. Lo vedo anche con mia figlia di 8 anni: ha un modo completamente diverso di fruire la musica. Oggi si ascolta con YouTube, con le playlist, con TikTok.
In ogni caso, diciamo che è complesso capire cose che per me sono scontate e che magari per altri possono non esserlo. Ti faccio un esempio: amo un gruppo come Any Other e mi sembra assurdo che in Italia non abbia un seguito ancora più ampio. È da considerare un ascolto di nicchia? Allo stesso modo credo che il futuro potrà andare verso una serie di ascolti nu jazz, ma direi che un discorso del genere vale più per l’Inghilterra che per l’Italia. Se invece vogliamo limitarci all’Italia e parlare di gruppi meno conosciuti, posso dirti che ultimamente mi è piaciuto molto l’album dei Quartieri. Però, ecco, in realtà è veramente complesso capire cos’è la nicchia oggi e cosa non lo è. Anche perché i cambiamenti oggi avvengono in maniera velocissima.
Forse a questo punto la nicchia è diventata la musica non strettamente contemporanea? Penso a Calcutta che riprende in Paracetamolo un riff di Paolo Conte. Penso all’operazione di ricerca in Nuova Napoli. Può essere che chi è interessato alla nicchia oggi guarda più spesso alle pubblicazioni del passato?
Se ci pensi, però, questa cosa qui è diventata la normalità nel tempo. Nel senso: l’hip hop è tutto un richiamo a una serie di uscite dei 70s, 80s ecc. Anche in Italia ormai è una continua riscoperta di Dalla, Battisti o anche artisti un attimo meno noti al grande pubblico, come Enzo Carella.
Questo pero è il punto di chi ascolta o di chi fa la musica? Qual è il punto di vista dell’ascoltatore?
Secondo me i doppi passaggi sono sempre molto complessi. Cioè il doppio passaggio: “io ascolto Iosonouncane, Iosonouncane si rifà a Dalla, allora io ascolto Dalla” non è automatico. Certo, ci può essere una riscoperta di alcuni suoni, di alcuni artisti. Non so però quanto in realtà sia automatico questo processo. Penso a quando i Thegiornalisti citavano Carboni o quando il nuovo singolo di Paradiso si rifà a Tozzi: non necessariamente la ricerca degli artisti porta gli ascoltatori verso determinati ascolti. Anche perché gli ascoltatori più giovani magari spesso non colgono questo doppio passaggio: per loro è un suono nuovo e basta.
E non pensi che è qui che entra, in qualche modo, il ruolo dei media?
Sì, in questo senso sì, anche se a volte abbiamo un’idea un po’ alterata del loro ruolo. Non so: quanto devono essere pedagogici realmente i media? Devono raccontare, devono dare una notizia o devono insegnare? È una cosa che ci si chiede spesso, e io negli anni ho cambiato anche varie idee al riguardo. Oggi penso che noi giornalisti dobbiamo in qualche modo raccontare, non essere per forza insigniti. Io non posso autodefinirmi e dire ai miei lettori cosa devono ascoltare o meno. O meglio, lo posso anche fare, ma farlo in maniera “laica”, nel senso: consigliare con umiltà ciò che ritengo meritevole e essere aperto alle critiche, senza mettermi da solo su un piedistallo, insomma.
In questo senso, credo che uno dei vari ruoli dei media sia il dover raccontare contestualizzando. Tornando all’esempio che ti dicevo prima: raccontare che nella musica contemporanea italiana c’è tanto Dalla, tanto Battisti, anche tanto Luca Carboni, in forme diverse, in maniera rimescolata, ridigerita eccetera è senz’altro importante. Però facciamo attenzione a dire che “il media deve insegnare”. Mi spaventa sempre un po’ questo discorso del ruolo del media, perché il ruolo cambia, considerando che i media cambiano continuamente.
Per quanto mi riguarda, ti direi che come giornalista è importante tener conto del panorama contemporaneo, ma non solo. Nel mio caso: capire quale sono gli ascolti attuali, ma non farsi guidare esclusivamente da quelli. Anzi, ti ripeto, per me è fondamentale anche raccontare qualcosa che non mi appartiene del tutto, come la trap. Se quattro o cinque anni fa non avessi ascoltato trap, probabilmente sarei arrivato in ritardo su un fenomeno molto importante oggi per la musica italiana. Vale lo stesso per il nuovo pop. Una volta parlavamo con Dario Brunori sul perché adesso tutti parlano del nuovo pop italiano. Lui mi rispose che il cambiamento è dipeso dalle persone che hanno preso in mano una serie di posizioni nei media. L’errore che non dobbiamo fare, a questo punto, è sederci su quest’idea e guardare con occhio pregiudizievole la novità, facendo gli stessi errori che imputavamo ai grandi dell’epoca. Prendersi anche il rischio di sbagliare, ma almeno continuare a essere curiosi, a capire ciò che ci succede intorno.
In questo senso: come sta cambiando secondo te il giornalismo musicale? Fino a un paio di anni fa era molto in voga il long form. Oggi mi sembra che molti sono orientati verso i podcast e i contenuti visuali sui social.
Sicuramente una delle sfide principali è il saper stare al passo con quest’epoca velocissima, considerando che viviamo un cambiamento continuo del racconto, e video e podcast aiutano molto in questo senso. Nel caso di FanPage, noi ci muoviamo da sempre tanto con il racconto video, però sì i podcast stanno sempre più prendendo piede e anche noi ci stiamo orientando verso questa direzione. In generale, la cosa più difficile del parlare di musica è proprio il parlarne. Raccontare la musica in un mondo in cui tutti hanno accesso a qualsiasi cosa all’istante è sempre più complesso. Tra l’altro, è sempre più complesso intervistare: oggi esce un album seguito da 50 interviste tutte uguali. Perché magari hai ricevuto il disco il giorno prima, perché ti vengono concessi cinque minuti di intervista, eccetera. A un certo punto però bisogna anche fare dietro front. A volte io mi rifiuto, ma non per cattiveria o altro, ma perché veramente cinque minuti di intervista sono insufficienti per andare a fondo.
Abbiamo aperto quest’intervista con il tuo esordio da giornalista a Napoli, chiudiamola con una domanda su Napoli. Ultimamente in Italia si è parlato molto della musica contemporanea partenopea. Sicuramente di rap/trap (Luché, Clementino, Geolier, Enzo Dong ecc.), ma anche club music e R&B (LIBERATO, Nu Guinea). Invece sbaglio o del neomelodico si è parlato molto meno? C’è un pregiudizio di fondo? Ci pensavo ascoltando il primo inedito dei Napoli Milionaria, che mi ha colpito molto, ma mi sembra che non sia decollato.
Il neomelodico vive questo pregiudizio, ma in realtà non è neanche troppo un pregiudizio. È un mondo molto complesso, molto particolare. Un mondo a cui non possiamo non fare riferimento per tutto quello che riguarda la musica tradizionale, che viene riscoperta perché adesso le contaminazioni sono fondamentali. L’operazione Napoli Milionaria, cosi come l’operazione Nu Guinea, che unisce tradizione e suoni contemporanei, è allora qualcosa che in qualche modo doveva accadere, mettiamola cosi. Unire il neomelodico all’urban in fondo ti porta verso un suono nuovo. Anche gli stessi 24 grana in un certo senso si rifacevano a un certo classicismo della musica napoletana, riportandola verso suoni più contemporanei. Se devo parlarti di un’artista neomelodico ti dico Franco Ricciardi. La pubblicazione del suo “Blu” avvenne in concomitanza con l’uscita di LIBERATO e mi chiedo ancora com’è possibile che tutta la pazzia che facemmo per LIBERATO (che a me piace) non ci fu anche per il primo, considerato il momento propizio. Franco Ricciardi ha una capacità incredibile di rimettersi in gioco ed è una persona curiosissima. Ha saputo reinventarsi e rimettersi in discussione con intelligenza e autocritica, che non è affatto una cosa semplice.