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Caro Gab,
ricomincia tutto. Proprio tutto, anche quell’annosa questione della sveglia. Mi chiedo: com’è possibile che un suono possa essere tanto infame quando onde sonore dello stesso tipo possono scatenare nei nostri cervelli la squisita percezione di una dolce melodia? Sebbene debba arrendermi al rientro e alla routine te lo dico a chiare lettere: “I wanna be free”.
Ecco pensiamo al bright side del suono e vediamo cosa ci ha portato l’ultima tornata di uscite discografiche: “Free” il nuovo disco di Iggy Pop, che proprio con quella dichiarazione di libertà apre le sue 10 tracce. Non è facile esprimersi quando hai i seguenti elementi:
1) l’immagine di Iggy giovane e pazzo stampata in testa
2) un album prodotto all’età di 72 anni
3) poco tempo per riflettere su mooooltissime cose
Dove va la musica quando un idolo della cultura pop inesorabilmente invecchia? È realistico che ci aspettiamo qualcosa di innovativo? Non è neanche giusto pretendere una vita vissuta pericolosamente quando ormai sei bell’e sciancato. C’è tanto jazz, c’è molta classe. C’è anche un testo inedito di Lou Reed. Non so, chi ascolterà questo disco? Me lo immagino, rigorosamente in vinile, sulla libreria piena di disconi da collezione di un appassionato di punk di mezza età che, notando suo figlio immerso nella prima puntata di X Factor, scuote la testa.
Nel 1971 Iggy irrompeva al 430 di King’s Rd, Londra nel piccolo folle negozio di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren. Me lo ha raccontato Michela Murgia nella sua serie podcast “Morgana” (disponibile su Spotify con tanti altri episodi ispirati a certe streghe buone) durante la puntata dedicata alla stilista più visionaria al mondo. Vivienne è ancora una bella spina nel fianco per chiunque auspichi il politically correct. Ha inventato praticamente il punk e ha espresso un principio che sintetizza la sua natura di attivista e creativa: “La gente oggi si veste male. Bisogna comprare meno, scegliere bene, buttare meno e avere più cura dei capi”.
Sia d’ispirazione anche per noi ormai sommersi da abiti praticamente monouso e realizzati, a basso costo, con materiali fortemente inquinanti. Mi sembra giusto il momento di interessarsi alla moda sostenibile. È necessario ed è molto cool, soprattutto perché lo fa una come Vivienne Westwood da molto prima che l’emergenza plastica si manifestasse nella vendita di costosissime borracce!
E tu Gab, ora che hai dismesso bermuda e infradito, cosa indossi?
Ale
Cara Ale,
”Chi ascolterebbe oggi questo disco?”. Questa settimana mi sono posto la stessa domanda mentre ascoltavo ”Hi, How Are You” di Daniel Johnston. Poi, con uno slancio marzulliano mi sono anche dato una risposta: ”ci stiamo perdendo qualcosa”. Poi, con un volo pindarico-ma-non-troppo, mi sono ricordato di un articolo letto su Esquire a fine mese scorso: ”che cosa ci perdiamo ascoltando musica in digitale”. Ciò che lega Johnston all’articolo di Esquire è, grossomodo, quello che la nostra generazione sta perdendo: la gioia dell’imprevisto. Un album di Johnston le nostre orecchie non lo potevano prevedere. In quell’ammasso di suoni, rumori, note stonate e uscite sbilenche si nasconde un talento fuori dal comune. Un talento che dubito sarebbe uscito allo scoperto grazie agli algoritmi di Spotify e alle Top Viral 50. A Johnston, piuttosto, ci si arriva grazie al consiglio di un amico, di una persona fidata, e per molti questa persona fidata è stata Kurt Cobain. Non sto, né voglio demonizzare i servizi di streaming o il digitale – di cui io stesso faccio un uso smodato. Sto solo provando a dire che a mio parere l’analogico è, e resta, insostituibile. L’analogico sta all’amico fidato come il digitale sta agli algoritmi di Spotify. Nessuno dei due è ”infallibile”, ma io dell’amico fidato, del giornalista fidato, del negozio di dischi fidato o del magazine fidato continuo – appunto – a fidarmi un pochino di più. Perché all’amico mi ci affeziono, mentre l’algoritmo lo prendo per quello che è: un calcolo, spesso e volentieri anche azzeccato, ma pur sempre un calcolo. Ai booklet dei vinili, ai 180 grammi delle edizioni da collezione e agli scricchiolii in sottofondo mi ci affeziono. Se un disco si graffia? Ci rimango di merda. Se un mp3 si cancella? Vabbè, pazienza. Un album di Daniel Johnston, allora, lo si prova ad ascoltare e basta, ma la verità è che uno soprattutto ci si affeziona. La cosa curiosa è che uno si affeziona agli artisti e poi augura loro di sfondare, di campare di musica tutta la vita, di trovarseli in playlist, suggeriti dagli algoritmi di Spotify e di stracciare le Viral 50. Tipo io un bel po’ di anni fa mi sono affezionato alla Brunori Sas, quando con un amico fidato – che mi fece scoprire le canzoni di Dario Brunori – andammo a un suo concerto in un centro culturale sperduto di Eboli, circondato dal nulla. Sette, otto anni fa nessuno, forse nemmeno Brunori, si sarebbe aspettato di suonare nei palazzetti nel 2020. Invece il 19 settembre esce un nuovo singolo della Sas che molto probabilmente finirà nella Viral 50 italiana e nei daily mix di noialtri.
Vatti a fidare degli amici fidati.
gab.
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