Le interviste di Talassa al FARM Festival 2019 – Technoir

Il FARM Festival è come un paese dei balocchi, ci si ricorda quando si accede alla masseria del 1700 – al limitare della Valle d’Itria – che ospita la rassegna ma non quando, più o meno volontariamente, si decide di lasciarla. Nella testa infatti si susseguiranno immagini di trulli, prati, menta fresca da odorare, suoni pieni ma distorti, che renderanno ardua l’impresa di tornare alla realtà.

Esso è diventato, un’edizione dopo l’altra, passerella di molti artisti italiani ed internazionali, all’apice o agli esordi. Ciò su cui scommette la line up di questa organizzazione è la sperimentazione a più livelli: musicale, identitaria, di pubblico. Il risultato è un miscuglio di prospettive tra chi è sul palco e chi ascolta.


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Le interviste che seguiranno ne sono un po’ la testimonianza: un susseguirsi di progetti nuovi e nuovissimi, che risentono inevitabilmente di tutta la musica europea degli anni Dieci.
Questa è la terza parte.

Interviste a cura di Maurizio Anelli

Intervista a Technoir/Alexandros & Jennifer

Alexandros ha origine greche e Jennifer nigeriane. Come vi siete conosciuti, in che modo avete dato avvio a questo progetto?

Alexandros: Noi abbiamo queste origini ma siamo nati entrambi a Genova, l’ambiente musicale di questa città è molto piccolo e ci conosciamo tutti. Anni fa ci siamo incontrati tramite altri progetti musicali, abbiamo suonato entrambi in una band di nome Audiograffiti e poi è nata la decisione di intraprendere la nostra strada “elettronica” da soli, spostandoci a Milano.

Come definireste la musica che fate, la inquadrereste in un genere?

A: Il nostro “problema” è proprio questo: noi vorremmo sfuggire ad ogni tipo di etichetta…

Jennifer: …e in un certo senso ci riusciamo: quest’estate abbiamo avuto la possibilità di suonare in diversi festival, dal jazz alla musica techno, all’indie. Diciamo che ha i suoi pro e i suoi contro questa cosa. Il fatto di non essere incasellabili ci dà la possibilità di farci conoscere da più persone.

A: Prima parlavo di problema perché vivendo nell’epoca di Spotify, c’è un po’ di incertezza di categorie in cui uno può uscire in streaming. Il pubblico invece risponde bene, quindi stiamo cercando di trasformare questa debolezza in un punto di forza.

In quello che facciamo c’è molto soul, più il nu soul di fine anni ’90, la black music americana, l’r’n’b, il rock, l’elettronica, ci piacciono da Aphex Twin a Erykah Badu, dai Nine Inch Nails a Jimi Hendrix.

A me vengono in mente anche i Massive Attack…

A: Sai che hai beccato proprio il giorno in cui, scendendo in macchina da Milano, ho detto a Jenny che era un po’ che non ci sentivamo i Massive? Di sicuro sono un grande riferimento. Siamo più ascrivibili alla scena inglese, che è questo ambiente qui. Però anche gli americani come Flying Lotus o Thundercat, The Roots, Prince ci influenzano abbastanza. Diciamo che io sono l’anima più rock, lei l’anima soul.


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Come vi trovate in Italia a cantare in inglese?

A: Potrebbe essere problematico, ma secondo me questo ostacolo nel mondo di oggi bisogna lasciarselo alle spalle, è una battaglia da combattere adesso.

J: Il fatto di cantare in inglese ci ha dato la possibilità di suonare all’estero, che era il punto fondamentale. Se suonassimo all’estero e cantassimo in italiano senza essere Laura Pausini, sarebbe un problema. Abbiamo suonato in Serbia, Bosnia, Parigi, Bruxelles e conosciuto tanti altri musicisti, cosa che non sarebbe stata possibile usando l’italiano.

A: Col genere che facciamo noi, cantare in inglese significa sempre spingere un po’ di più, in italiano sarebbe certamente più facile. Ma non saremmo più noi.

Da quando ero piccolo ho sempre ascoltato roba americana e inglese, gli artisti italiani li ho scoperti un po’ più in là: ora sto riscoprendo alcune cose di Lucio Dalla e Lucio Battisti. Non escludo che queste stesse influenze italiane rientrino prima o poi nella nostra musica.

Cosa vi riserva il futuro?

A: Quest’anno è uscito il nostro EP AlieNation con la collaborazione di Clap! Clap! e Stuart Zender, bassista e fondatore dei Jamiroquai, che abbiamo conosciuto ad un festival in Serbia e con cui è stato molto figo lavorare. Poi abbiamo un album in programma nel 2020, penso che coinvolgeremo di nuovo Stuart nelle produzioni.

J: I brani dell’LP che abbiamo pubblicato nel 2017 facevano tutti parte prima di EP precedenti: nell’era della fruizione digitale credo sia importante essere attenti alla forma con cui questi progetti vengono presentati, anche perché la soglia di attenzione del pubblico si è abbassata.

A: Si è abbassata e si è anche spostata. Per esempio, sulle Instagram Stories.

Come mai avete deciso di chiamarvi Technoir?

A: Visto che univamo un po’ tecnologia, elettronica e musica black, abbiamo cercato un gioco di parole che si adattasse a tutto questo. E poi abbiamo scoperto che non solo è un genere cinematografico ma anche il nome del locale che appare nel film Terminator: non era voluto ma è comunque una figata!