Black is the new Black: Alla scoperta della black culture contemporanea con Francesco Abazia


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di Gabriele Naddeo

Dopo le canzoni d’amore italiane raccontate da Giulia Cavaliere e l’R&B nostrano e internazionale secondo Giorgio Valletta, continua la serie delle interviste di Talassa dedicate ai professionisti del giornalismo musicale. Francesco Abazia – laureato in economia internazionale, business consultant e giornalista freelancer – scrive di musica per testate come Rolling Stone, Esquire e Rivista Studio, dedicando un’occhio di riguardo alla componente sociale e culturale. Ha scritto molto della sua città natale, Napoli, e da tre anni è editor della sezione musica di Red Bull Italia. Nel 2017 ha curato per Il Mucchio la rubrica sulle serie tv, continuando poi ad occuparsi di televisione per diverse riviste. Ha scritto anche di moda e fotografia e, soprattutto, si è spesso occupato di cultura afroamericana, approfondendone l’impatto sulla cultura popolare e mainstream USA. È da quest’ultimo punto che prende piede la nostra breve chiacchierata: di cosa parliamo quando pensiamo alla black culture contemporanea? 


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Sei un grande appassionato e conoscitore della black culture contemporanea: hai dei punti di riferimento in particolare? Dei siti o podcast che reputi fondamentali e che consiglieresti?

Inizierei dai podcast perché al momento proprio la radio è il mezzo che mi affascina di più e da cui riesco a prendere molti più spunti.  Da un punto di vista culturale in senso lato, mi piace molto Still Processing del New York Times. Presenta la cultura pop afroamericana in modo approfondito, ma anche molto colloquiale, analizzando riferimenti e personaggi fondamentali per la black culture contemporanea, passando per film come Green Book e Black Panther e personaggi come Michelle Obama. Sempre del New York Times, ma concentrato più su un punto di vista strettamente musicale, c’è Popcast curato da Jon Caramanica, uno dei nomi di spicco tra i cultori della pop music.  

In quanto a webzine, penso che in quest’ambito The Fader sia il sito che più riesce a stare al passo con i tempi. Recentemente ho notato che FACT Magazine si sta spostando verso una matrice più black e pop in senso ampio. Ah, quasi dimenticavo Okayplayer: un vero e proprio faro per la black culture. In Italia mi piace molto il Tascabile (senza citare i magazine con cui collaboro), ma devo dire che non è facilissimo leggere di black culture nel nostro Paese.

Coma mai?

Mi spiego meglio: in Italia c’è sicuramente interesse per album di artisti come Drake, Kendrick Lamar, Beyoncé, ecc. Noto però che la differenza più grande sta nel modo in cui si raccontano questi dischi. All’estero un album di Drake e Lamar non viene solo recensito, viene iper-interpretato, magari prendendosi anche qualche libertà eccessiva, ma facendo un lavoro culturale che è molto importante. Prendi un podcast come Dissect, o i lavori di approfondimento dei magazine sopracitati, o di The Ringer, o i profili del New Yorker. Invece, fatta qualche eccezione, spesso la musica nel nostro Paese viene analizzata solo dal punto di vista strettamente musicale: manca ancora l’interesse verso una prospettiva più sociale, il voler andare all’aldilà e capire dove ci vuole portare quel determinato disco, personaggio o trend. Mi rendo conto che spesso album del genere raccontano realtà molto distanti dalla nostra, ma forse una delle ragioni principali è che in Italia molti lettori intendono ancora il sito di musica come sito di musica e basta.  

Restando sull’argomento: in che modo secondo te è cambiato o sta cambiando il rapporto tra cultura afroamericana e industria dell’entertainment?

La black culture si sta, finalmente, sempre più ri-appropriando della sua narrativa. Ha i suoi scrittori di riferimento, i suoi fumettisti, i suoi supereroi, le sue serie tv di culto. L’anno scorso, uno dei pochi video musicali stranieri a diventare virale anche in Italia è stato This Is America. Soprattutto, i vari artisti e personaggi pubblici in questione si sono accorti di avere un certo potere e di poter mettere sotto pressione l’industria dell’entertainment. Pensa al caso dei Grammy, dove molti degli artisti candidati si sono rifiutati di partecipare alla premiazione. Stessa cosa per il concerto nell’intervallo del Super Bowl. Oggi personaggi come Kendrick Lamar, Ariana Grande, Beyoncé o  Jay Z hanno un peso enorme nell’industria musicale e si stanno facendo sentire. Se perdi artisti del genere non dico che l’industria pop è finita…ma quasi. Questo è e sarà il grande tema dei prossimi anni: se non ti accorgi che questa cultura è diventata dominante, continui a metterci una pezza, ma come spesso accade la pezza non regge e la differenza poi si vede.

Mi sembra che questa forte influenza della black culture nel pop sia oggi evidente anche nel mondo della moda…

Assolutamente! Facile citare il caso di Virgil Abloh e della sua Off-White. Abloh è il simbolo di come la black culture si stia affermando anche nel business del fashion a livello mondiale.  Lui è partito dal South side di Chicago, cresciuto sotto l’ala protettiva di Kanye West e poi diventato direttore artistico di Louis Vuitton.

Poi c’è il caso di Converse, che per rilanciarsi ha puntato tutto sul ritorno della One Star, affidandola a Tyler The Creator: se Converse è tornata ad essere un player nello street style, soprattutto per quanto riguarda le sneakers, gran parte del merito è di Tyler The Creator. Di esempi però ce ne sarebbero veramente parecchi. Anche Supreme: se è passato da marchio di nicchia per skater a brand di fama mondiale, gran parte del merito è dei rapper, come A$AP Rocky e Tyler The Creator. Sono proprio questi personaggi, tra l’altro, che hanno spesso agito in maniera anche avanguardistica, portando avanti un’estetica diversa, spesso femminina e androgina, proprio come nel caso di A$AP Rocky.

Mi sembra che qualcosa di molto simile oggi stia accadendo anche nel mondo latino, sempre più protagonista anche nel settore della musica pop internazionale. Penso a un personaggio come Bad Bunny, quasi la versione latina di quell’estetica più androgina à la A$AP Rocky che dicevi tu. Tu che ne pensi, in generale, dell’ascesa della Latin music?

Secondo me nel caso della Latin music il punto di maggior interesse coincide con il grande equivoco che c’è stato sull’esplosione del reggaeton, percepito solo come una moda e quindi, come tutte le mode, come un fenomeno passeggero. In realtà, va benissimo parlare di moda, ma fino a un certo punto, che poi è lo stesso discorso che si può fare sulla black music. Nel senso: la Latin music, la Latin trap e tutte le sue derivazioni andranno sempre più forte perché la popolazione statunitense – pare entro il 2045 – sarà una popolazione a minoranza bianca (intorno al 45% della popolazione). Il restante 55% della popolazione statunitense sarà formato da varie minoranze, di cui la più popolosa sarà proprio quella ispanica.

Il mercato di riferimento resta quello americano, per varie ragioni, ma è un mercato che si sta ampliando e che è sempre più influenzato dalle trasformazioni della sua società. Prima Sean Paul cercava di fare musica quanto più esportabile possibile, oggi Bad Bunny può parlare in spagnolo, fare quello che gli pare ed essere comunque ascoltatissimo a livello internazionale.