Talassanremo: Duettando con noi stessi

di Gerardo Russo

Nella quarta serata del Festival gli artisti in gara hanno avuto l’opportunità di rivisitare le loro canzoni, insieme ad altri cantanti, ballerini o attori. È come avere l’opportunità di rifare un esame. I brani hanno una seconda chance per colpire il cuore del pubblico.

Federica Carta e Shade vengono accompagnati da Cristina D’Avena. Ci si chiede come nessuno abbia mai pensato di lasciar cantare alla celebre voce dei cartoni animati gli inni dei paesi di tutto il mondo, così da non avere più guerre. La sua voce rende tutto più familiare e lascia che il pezzo arrivi anche a politici di professione o a cinici amministratori d’azienda. Sono sicuramente stati bambini anche loro.

L’eterna Nada accompagna Motta ed entrambi i cantanti scompaiono dalla scena. La canzone tiene il palco da sola grazie alle rare voci degli artisti, più espressive degli sguardi enigmatici con cui Motta ci ha accompagnato nelle precedenti serate. La Malanima dona al cantautore pisano il consiglio più prezioso, annullarsi sul palco e lasciar prendere il volo alle parole.


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Ghemon sceglie di duettare con se stesso, oltre che con Diodato e i Calibro 35. Con una naturalezza da freestyler, il rapper cantautore regala una nuova strofa al brano. Sembra tutto così semplice. Sarebbe bello che ogni giorno una canzone si evolvesse, seguendo le sensibilità degli artisti e gli spunti che arrivano dal confronto con gli ascoltatori ai concerti. Forse, così come nella vita, la nostra società ha sempre trovato più comoda l’organizzazione, l’obbedienza. Seguire una linea chiara, una musica che conosciamo, ci fa sentire più al sicuro. Il pubblico della società del futuro forse non avrà più canzoni, ma solo musiche che nascono e muoiono, che vivono un attimo e poi volano via come le rose viola di Ghemon.

Il pezzo di Nek cambia totalmente faccia. Si fonde con un monologo teatrale di Neri Marcorè e una base non più elettronica ma da musica classica. Filippo Neviani diventa introspettivo e profondo. Ci chiediamo se forse, tutte le volte che un pezzo non ci piace, che non ci va di andare a un concerto, il problema siamo noi. Possiamo non essere capaci di apprezzare tutto, abbiamo bisogno di vedere il vestito giusto, qualcosa che incontra i nostri gusti. Ma quanto è bigotta la coerenza.

Il tormentone dei Boomdabash rischia poco. Puntando ad essere un brano orecchiabile da mettere in loop, non modifica la sua natura ospitando un semplice Rocco Hunt e replicando l’operazione simpatia de Lo Stato Sociale con un coro di bambini.

Nel dialogo interiore dell’adolescente di Daniele Silvestri e Rancore s’inserisce invece una divinità, interpretata magistralmente dal mistico Manuel Agnelli. La canzone si trasforma in un drammatico musical.

I pezzi nella serata si mostrano così nelle sfumature che non eravamo stati in grado di cogliere. Gli artisti aggiungono alle canzoni qualcosa che potevamo essere in grado di immaginare, fantasticando su una base tribale o sognando dei violini che ora sono arrivati davvero. Ci sono un bel po’ di cose belle che non riusciamo ad apprezzare se la bellezza non l’abbiamo negli occhi.