di Alessandra Virginia Rossi
foto di Giovanni Colaneri
“La frustrazione che provi quando hai un’idea e non hai le parole. La frustrazione di quando hai una parola nella testa e non sai come dirla. Come quando si vuole comunicare con qualcuno ma non si conosce la lingua. Quello è uno spaesamento che è impossibile da raccontare e mi fa paura.”
Queste parole, e quelle in chiusura, sono di Morgan e descrivono quella tremenda sensazione che provi quando hai un’esigenza espressiva ma non puoi comunicarla. I musicisti sono dei privilegiati perché hanno un potere, una via, un rifugio in più di cui servirsi (se ne era parlato anche qui) quando l’uomo comune non ne ha. È questa l’impressione che hai quando assisti a un live che coinvolge i quattro musicisti riuniti nel progetto I Hate My Village: sono dei privilegiati.
Le carriere e le vite di Adriano Viterbini, Fabio Rondanini, Marco Fasolo e Alberto Ferrari si sono già intrecciate tra loro in occasioni musicali che hanno fatto del bene al panorama italiano e internazionale. Stavolta mettono insieme tutta l’esperienza accumulata esplorando il mondo, sperimentando in sala a tempo perso e lavorando per star della musica mondiale. La ricetta è sempre la stessa: fare jam, improvvisare e stare a vedere dove ci porta quel suono. La prossima idea di questi fecondissimi fuoriclasse potrebbe nascere proprio mentre noi siamo sottopalco ad ascoltare un loro concerto.
Al live di Roma, sabato 2 febbraio, assistono centinaia di persone consapevoli di essere testimoni di qualcosa di prezioso. Un live atteso, trasformato presto, e pericolosamente, in happening. Chi e quanti sono in grado di comprendere tale sofisticatezza? È un po’ la domanda che circolava in sordina tra coloro che tendono a fare della musica che amano qualcosa di elitario ed esclusivo. Perché no, dal momento che certe prelibatezze vanno preservate?
Il punto è che quella di I Hate My Village è musica senza sovrastrutture, che esplora e supera i confini senza sovraccaricarsi: Musica Nuda, tanto per fare il nome di qualcun altro che ne sa.
Nuda perché naturale, indirizzata ai nostri più reconditi e atavici istinti e come tale intellegibile non tanto a livello razionale, quanto al corpo tout court.
Il fatto di proporre sonorità afro, tribali, con quell’approccio un po’ esoterico unite a quelle del mondo occidentale (in primis blues e psichedelia che comunque portano con sé antiche tradizioni e nuove esplorazioni) potrebbe far pensare ad un gesto anche politico. Il mondo attuale è innegabilmente afflitto dallo scontro tra civiltà, o almeno dall’incontro, per niente agevolato, tra culture. Portare nei club musica mediorientale o africana è uno schiaffo al tradizionalismo incalzante nel nostro paese. Forse è anche una tendenza stilistica (in parole meno tenere una moda) che si è fatta strada negli ultimi anni più o meno da quando si è iniziato a parlare in Italia dei Tuareg Tinariwen.
È chiaro, a questo punto, che della musica si può fare qualsiasi uso. Meglio quando se ne fa un uso sapiente, certo, ma per quello ci sono i fuoriclasse. Noi ascoltiamo.
“La musica non è mia, non è tua, non è di nessuno. Non sappiamo dove abita, perché è come la luce o come Dio. Sappiamo solo dove si manifesta.”