Giro di boa è la nuova rubrica di Talassa che analizza una canzone in tre momenti diversi, prendendo spunto dalla profondità del mare. Dalla riva, che racconta l’artista e il brano in generale, alla boa, segnalatrice di frasi interessanti, oscure o controverse nel testo, fino al blu, che rischiara o complica ancor di più il tutto.
di Maurizio Anelli
Riva
Lo spettro emotivo di James Blake è stato sempre qualcosa che andava oltre la musica che produceva. Fino al suo penultimo disco, “The Colour in Anything” (2016), si aveva l’impressione di assistere al movimento di un muscolo che non veniva mai completamente disteso in un movimento limpido e arioso. Tutto o quasi volgeva inevitabilmente verso il grigio dei testi e la fumosità delle atmosfere, orchestrato da sapienti mani di pianista e produttore dubstep post Burial, con un talento raro, quello sì luminosissimo. Nonostante in poco tempo il ragazzo di Londra avesse creato uno stile inconfondibile, la voce da crooner sfumata da vagonate di soft-elettronica e soul, qualcosa rimaneva nascosto in soffitta.
Verso la fine di maggio dello scorso anno veniva rilasciata Don’t Miss It, che Blake avrebbe poi inserito nella sua quarta fatica in studio, “Assume Form”, uscito il 18 gennaio. Il pezzo, come egli stesso ha dichiarato, è “il monologo interiore di un egomaniaco” ma anche uno dei suoi massimi momenti di lucidità: ci sono stati dei momenti in cui una serenità emotiva avrebbe potuto prendere il posto di inquietudini e depressione, ma Blake si era già troppo avviluppato a sé stesso, come artista e come uomo. Pitchfork definì la canzone come l’ennesimo capitolo di una narrativa da “sad boy” che il cantante si era portato dietro sin dal suo primo album. Qualcosa, però, stava veramente cambiando nella sfera personale di Blake, tanto che si sentì in dovere di rispondere con una lettera, pubblicata su Twitter.
Please read. I’ve wanted to say this for a long time, and now seemed as good a time as any. pic.twitter.com/1fSPt7SJnx
— James Blake (@jamesblake) 26 maggio 2018
Più che identificarsi in una dialettica da ragazzo triste, il punto secondo Blake è capire che parlare dei propri sentimenti pubblicamente può aiutare a curare ogni tipo di malessere psicologico, senza che il fatto di essere un uomo costituisca un limite. “The road to mental health and happiness is paved with honesty”.
Quest’atto di onestà si è fatto strumento tangibile proprio con l’uscita di Assume Form. Scendiamo più giù e vediamo come.
Boa
Assume Form sprigiona la potenza di un performativo già dal titolo simbolico: Blake, come se si trovasse in un monolgo di Trainspotting ma senza ironia, sta accettando il mondo esterno, sta dicendo di sì a una concretezza di pensieri e di scelte, finanche all’amore. L’artista britannico è in una relazione dal 2015 con l’attrice e presentatrice Jameela Jamil, ma solo l’anno scorso è stata via via sdoganata al pubblico. Quest’album è un susseguirsi di momenti romantici e fotografie a tinte rosa, come mai prima d’ora nella vita di Blake: la semplicità di stare a piedi nudi nel parco nell’omonimo pezzo; la materialissima gratitudine che l’artista sente verso la sua donna per avergli dato una sicurezza economica –in Into The Red–, cancellando ancora una volta decine di stereotipi maschilisti; l’empatia assoluta raggiunta con la compagna in Can’t Believe the Way We Flow.
Ma il modo di produrre di Blake è anche un eterno proiettarsi su sé stesso, ragion per cui una sua canzone ci sembra sempre di averla già sentita anche al primissimo ascolto. Non mancano, quindi, i momenti cupi a cui ci ha abituato, soprattutto quando si chiede se questa sua raggiunta stabilità sentimentale sia duratura come in Are You in Love o in Where’s The Catch –letteralmente “dove sta l’inganno?”–.
Un’apertura così conclamata al mondo esterno comporta sicuramente dei rischi di riuscita, l’attingere a piene mani dalle influenze del momento fa di questo album un pastiche non sempre risolto. Travis Scott in Mile High si mette al servizio di toni più cupi che astrowordiani, ma non si grida alla novità. Così è anche per il duetto inaspettato con la nuova regina del pop spagnolo Rosalía, Barefoot in The Park, che ammalia e seduce, ma non stupisce. E forse è questo il punto, a Blake interessa la straordinaria normalità del mettersi a nudo. È il suo disco più immediato e pragmatico, e non a caso si tratta di qualcosa di molto prossimo all’r’n’b, fin quasi al pop.
Ma arriviamo alla title track, che più di tutte sprigiona la potenza di questo nuovo-vecchio Blake. La costruzione è la solita: un meraviglioso giro di pianoforte che si rifugia verso la fine del pezzo in una serie di archi sognanti. Nel mezzo una cruda definizione della depressione, presa in prestito dallo slam poet Rage Almighty e campionata, “It feels like like a thousand pounds of weight holding your body down in a pool of water, barely reaching your chin”. Ma anche tutta un’altra prospettiva. Ed è questa la nuovissima attitudine del ragazzo londinese, che questa volta tende la mano e chiede aiuto, si rende conto di provare un dolore che lo fa sentire finalmente vivo, ha realizzato com’è sperimentare le cose in prima persona anziché guardarsi esistere giorno dopo giorno.
Concentriamoci sul testo:
Gone through the motions my whole life
I hope this is the first day
That I connect motion to feeling
I will assume form, I’ll leave the ether
I will assume form, I’ll be out of my head this time
I will be touchable by her, I will be reachable
Now you can feel everything
Doesn’t it get much clearer?
Doesn’t it seem connected?
Doesn’t it get you started?
Doesn’t it make you happier?
Doesn’t it feel more natural?
Doesn’t it see you float?
Doesn’t it seem much warmer
Just knowing the sun will be out?