Recensioni Fuori Tempo Massimo: The Clash – “London Calling”

di Giovanni Colaneri

Non molto tempo fa scorrevo pigramente il dito sullo schermo del telefono alla ricerca di una canzone che fosse in grado di stupirmi, che trainasse la sfera delle mie riproduzioni quotidiane fuori dalla banalità o, quantomeno, dall’ordinario. Scivolai casualmente attraverso numerose playlist dai titoli “colorati e variopinti”, senza curarmi di dove sarei andato a finire ogni qualvolta avessi pigiato il tastino “next song”. Capitai su di un brano jazz semplice, dal gusto rock e sicuramente fuori dal comune. Questa è la breve storia di come scoprii i The Clash. Qualcosa non torna? No, tutto nella norma, almeno secondo gli schemi di uno dei gruppi inglesi più famosi della generazione ‘70/’80.

Ovviamente tutto torna, davvero un gruppo famoso, ma ora, tristemente, non piacciono più a nessuno. Non è una frase ad effetto, può sembrare un paradosso il fatto che, se io ora vedessi qualcuno in giro con una maglietta di “London Calling”, una pietra miliare del rock e del punk, sarebbe solo perché qualche casa di moda ha capito che certe copertine, per le nuove generazioni, vendono più di altre. Nulla si vuole togliere a Pennie Smith, la fotografa del gruppo durante il tour, che rese celebre il concerto del 21 Settembre ’79, al termine del quale Paul Simonon sfasciò il basso sullo stage (E tu avresti detto “ma sembra una chitarra”, vero?). Sulla copertina c’era un deliberato riferimento al tipo di caratteri, ai colori, e al layout dell’album di debutto di Elvis Presley del 1956. “Quando il record di Elvis è stato pubblicato” racconta Simonon “Il rock era piuttosto pericoloso. E suppongo che pubblicando il nostro disco abbiamo fatto una mossa altrettanto pericolosa.” Ora, piuttosto, va notato come una sperimentazione musicale al livello “The clash”, al giorno d’oggi, sia digeribile come lattosio per un intollerante ai latticini. Ma perché?


Elvis

“London Calling” ha decisamente lanciato il gruppo e oggi ci trasciniamo dietro, come un vecchio e sporco velo nuziale, le conseguenze del suo successo, del genio e la spensieratezza di quei quattro poracci i cui nomi neanche vengono ricordati, sotto la forma di milioni di poster e magliette. Ma non ci trasciniamo dietro la splendida macedonia dal gusto inglese di Joe, Mick, Topper e Paul, la loro musica andava sistematicamente contro tutto ciò che era “la regola”. Andavano contro la borghesia dell’hard rock, andavano contro la lentezza e il perbenismo, uscivano dagli schemi del “progressive” e rivoluzionavano qualsiasi fosse l’idea di “coerenza”. Pur rimanendo all’interno dell’estetica punk, con musica volgare e spensierata, elementare, uscivano dall’ordinario mostrando quella che era, a detta di Guy Stevens, produttore dell’album (alcolista morto due anni dopo per abuso di farmaci contro l’alcolismo), di “un’intensità maniacale”.

Era il 1979, colpirono l’intraprendenza, la critica, la politica, la libertà, la cauta mentalità di rivolta accompagnata dal gusto cosciente del consueto, l’accostare generi come Rock, Punk, Ska, Jazz, R&B, Reggae, 19 brani del tutto staccati l’uno dall’altro venduti in un disco doppio al prezzo di uno singolo e tanto altro. Crearono la propria specifica immagine, il proprio suono, il proprio seguito e le proprie idee, sviluppandole nel decennio che li vide celebri, al termine del quale, nel 1985, Joe Strummer mise il punto alla storia che aveva creato assieme ai suoi compagni. Oggi è il 2018, salvo alcuni “dinosauri” che calcano ancora i palchi di tutto il mondo in faccia a “vecchi hippies” della generazione X e giovani “millennials”, la scena è dominata dall’ordinario. Il desiderio di rompere le catene è scemato, il pubblico sa cosa vuole e i nuovi musicisti sanno perfettamente come accontentarlo, come lo sanno anche le case discografiche. Il mercato di massa si sta dividendo dal mercato di nicchia, il “casual” si divide dal “colto”, e seppur molti abbiano quel poster aggressivo appeso in camera, non altrettanti saprebbero canticchiare:

“The ice age is coming, the sun is zooming in
Meltdown expected, the wheat is growin’ thin
Engines stop running, but I have no fear
‘Cause London is drowning, and I, I live by the river”