di Alvise Danesin
Settembre 2011, stazione di Bologna. Io e un’amica scendiamo dal treno e ci dirigiamo verso l’uscita dove ci sarebbe dovuto essere un terzo amico ad aspettarci. Sono decisamente eccitato: l’anno precedente, con Blink e Sum 41, era stato un inferno di polvere e sudore, questa volta si prospetta essere ancora meglio. Il festival a cui siamo diretti è diviso in due giornate: la prima dedicata a quello che all’epoca chiamavamo indie rock britannico, la seconda al pop punk nord americano. Essendo degli adolescenti arrabbiati, avevamo snobbato la prima giornata considerandola troppo mainstream, da fighetti con i risvoltini ( il tempo delle scuole superiori è pieno di queste etichette assurde). L’amico che ci aspetta fuori dalla stazione, invece, è andato al concerto anche il giorno prima e ha dormito nella sala d’aspetto della stazione. Visibilmente provato ci racconta come il concerto fosse stato una bomba e come ci fossero stati, addirittura, anche dei momenti di pogo. Io e la mia amica storciamo il naso e ci avviamo verso il fango e il pogo, quello “vero”.
Ad oggi, ho ancora gli incubi per non aver ascoltato prima gli headliner di quel primo giorno di festival ed essermi fermato davanti a qualche stupido appellativo da scuola superiore. Sarebbe bastato solo qualche brano del loro disco d’esordio per farmi capire che grande errore stessi commettendo.
Il disco in questione è “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” uscito a gennaio del 2006 per la Domino Records, ma la storia degli Arctic Monkeys comincia qualche mese prima, quando, grazie ad uno dei più famosi passaparola digitali del mondo della musica, la band infiamma uno dei palchi minori del Reading Festival senza avere ancora nessun album all’attivo. Nel video, ancora presente su YouTube, si può vedere come il pubblico canta a memoria quella manciata di canzoni che erano state distribuite dalla band ai concerti e messe poi su MySpace da qualche fan. Dopo quella performance, la rivista inglese NME dedica al gruppo di Sheffield la copertina del numero di ottobre 2005, contribuendo così ad aumentare l’hype per l’uscita del disco.
Gli Arctic Monkeys non deludono le aspettative del pubblico e sfornano un album capace di superare il milione di copie vendute nei primi 8 giorni, battendo dopo 12 anni il record di “Definitely Maybe” degli Oasis. La produzione è affidata a Jim Abbiss ( già collaboratore di Björk, Massive Attack, Editors e The Kooks) mentre la foto in copertina, secondo la leggenda, ritrae l’amico Chris McClure (frontman della band The Violet May) dopo una serata a base di alcol e sostanze sospette sponsorizzata appositamente dagli stessi Monkeys. Il disco non sembra in alcun modo un esordio e già dai primi ascolti si possono cogliere influenze derivanti dai principali gruppi anglosassoni dei primi anni ‘00: The Strokes, The Libertines, Franz Ferdinaz, ecc. La principale differenza con i gruppi citati però sta nella velocità delle tracce, maggiore rispetto ai colleghi, e nelle chitarre molto più distorte e graffianti, arrabbiate. Ascoltando i primi due singoli estratti dall’album e schizzati al primo posto delle classifiche inglesi, I Bet You Look Good On The Dance Floor e When The Sun Goes Down, si capisce che il mio amico probabilmente non mentiva riguardo al pogo. I testi, inoltre, evidenziano subito una capacità narrativa fuori dal comune e Alex Turner (frontman, chitarra e voce) nelle tredici tracce, oltre a dimostrarsi arguto paroliere e musicista, biascica coinvolgenti melodie mentre racconta la vita nella provincia inglese tra amore, musica e pub.
Negli anni a seguire gli Arctic Monkeys hanno dimostrato di non essere solamente l’ennesima “next big thing” inglese, io ho imparato la lezione riguardo i pregiudizi musicali e “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not” è entrato di diritto tra gli album che meritano di essere considerati classici. Mica male, no?