di Marco Beltramelli
“Per cercare il ritmo” (2017) è il fortunato esordio di Germanò per Bomba Dischi, una delle etichette simbolo del risveglio musicale italiano degli ultimi anni. Prima ancora di capire come e dove cercarlo, abbiamo chiesto al diretto interessato di darci qualche dritta al riguardo, tra un retroscena del disco e una riflessione sulla musica a Roma. Lui ci ha portato in Australia, poi di nuovo nella Capitale e, infine, a Milano. Perché in fondo il ritmo, o il benessere che dir si voglia, a volte lo si cerca lontano da casa, quando invece si potrebbe tranquillamente nascondere nella piazza del tuo vecchio quartiere.
Prima del tuo progetto solista hai militato in altre band ed hai girato il mondo, come hai deciso di intraprendere il percorso Germanò?
Io ho iniziato con gli Jacqueries che avevo 18 anni ed ero ancora al Liceo. Nel 2011 abbiamo fatto uscire un disco con 42 Records. Con loro mi sono divertito molto ma eravamo ancora molto acerbi, ad oggi, ognuno ha preso la propria strada. Io ho continuato con un altro gruppo, gli Alpinismo. Poi sono partito, ho provato a cercarmi un lavoro normale. C’è stato un periodo in cui mi sentivo veramente smarrito e pensavo che non avrei vissuto di musica. Ho iniziato a scrivere canzoni più per necessità personali, poi, fortunatamente, quando sono uscite sono piaciute. Il progetto Germanò non era partito con delle intenzioni così professionali.
La scelta così intima di intitolare il tuo progetto artistico col tuo cognome indica una direzione stilistica ben precisa? Mi spiego meglio, hai scelto il tuo cognome perché, essenzialmente, canti di fatti personali?
In realtà è stato molto difficile scegliere il nome quindi, ad un certo punto, ho lasciato perdere costrutti e scelte complicate ed ho optato per il mio cognome. La mia musica non è di per sé più intima delle altre però, certamente, mi rispecchia molto, è estremamente personale. Quindi sì, all’inizio forse non avevo le idee così chiare su come si sarebbe evoluto il mio progetto. Alla fine la scelta del mio cognome è risultata calzante.
“Per cercare il ritmo” è il titolo del tuo album ma anche di una tua canzone. Ascoltandola ho provato a trarne un’interpretazione: per inseguire la tua carriera da musicista hai dovuto rinunciare ad una ragazza o trasferirti da Roma. Sbaglio?
Quel pezzo parla proprio della mia partenza per l’Australia. Volevo provare un altro stile di vita. Volevo anche cercarmi un lavoro, in quel momento non pensavo minimamente alla possibilità di intraprendere un percorso musicale professionale. Poi ovviamente stavo con una ragazza e quindi questa canzone assume sicuramente un doppio significato. Il significato dell’album, invece, è venuto un po’ a posteriori. Se lo avessi programmato prima di comporlo sarei Battiato. Penso che molti altri artisti si siano immedesimati nella mia stessa situazione: in un momento di confusione, in un momento cui non si conosce precisamente cosa si vuole, la tentazione di abbandonare tutto e scappare dall’altra parte del mondo è la prima a coglierti. Per cercare un benessere che solamente una volta abbandonato ti accorgi di aver sempre avuto sotto casa. Il ritmo ha questo duplice accezione musicale e spirituale, indica il benessere personale. Trovare il ritmo vuol dire trovare una quadra nella vita.
Se non sbaglio ti sei trasferito da Roma a Milano e, a dir la verità, fa un po’ strano. Nel capoluogo lombardo si trasferiscono molti musicisti da tutta Italia ma, forse, non possiamo dire esista una vera scena autoctona. A Roma invece è da anni che si parla di scena romana.
Sto a Milano da un annetto ormai. All’inizio la vivevo male, ora ho imparato ad apprezzarla e mi ci trovo bene. A Roma esiste da anni una scena molto genuina che ormai ha preso una ribalta nazionale, io mi ci sento parte perché ho abitato lì, ho frequentato l’università lì. Ci ho iniziato a suonare, frequentavo determinati locali e, di conseguenza, determinate persone. Però non si può dire che a Milano non esista una scena, Milano, ad esempio, è sicuramente la capitale italiana del rap.
Certo, e molti rapper sono i porta bandiere del proprio quartiere. Ma se una volta il centro nevralgico della capitale era il Pigneto, adesso a Roma, forse, si può parlare a tutti gli effetti di una scena Trasteverina.
Roma non è mai stata efficiente, ed è molto grossa, questi fattori hanno contribuito a questo fenomeno della “nuova ghettizzazione”. La gente preferisce rimanere nel proprio quartiere perché spesso raggiungere un concerto con i mezzi è praticamente impossibile. Gli universitari preferiscono abitare a Trastevere o al Pigneto perché pensano di poterci trovare qualcosa. Trastevere è un quartiere molto caratteristico ed è impossibile cancellarsela dall’anima. Quasi imprescindibile se fai musica di un certo tipo. Anche Carl Brave x Franco 126 hanno vissuto un po’ la mia stessa situazione trasferendosi a Berlino per poi ritrovarsi a rimpiangere il proprio quartiere. Ma parlare di scena trasteverina forse è un po’ impreciso. Nel senso, non esiste poi un vero locale dove fare musica, incontrarsi, è più un venire letteralmente dallo stesso quartiere. Certamente è una realtà che è arrivata a tantissimi ragazzi perché tratta argomenti che li riguardano da vicino, direttamente, e in questo senso forse si può veramente creare un rapporto d’intimità.
Magari mi sbaglio, ma in tutti questi artisti, nei quali sei compreso anche tu, ho riscontrato un prepotente ritorno di Califano.
So che a Franco 126 piace molto ma, nella mia cerchia di amici più stretti, non conosco appassionati di Califano. Paradossalmente una dei suoi più grandi fan è un mio amico di Milano. La passione per Califano è una cosa che ho sempre sentito abbastanza mia…
Detto ciò, gli autori romani avranno certamente influenzato la tua musica, penso ad esempio ai Tiromancino.
C’è tutto un modo di fare musica che è tipico della Roma anni ’90 che a me piace molto, va da Tiromancino di Sinigallia e Zampaglione a Niccolò Fabi, Max Gazzè e Daniele Silvestri. Da piccolo ascoltavo molto anche gli Otto Ohm. Non dico che con questa roba sono cresciuto ma l’ho sempre avuta nelle orecchie, l’ho sempre ascoltata anche passivamente, la passavano in tutte le radio ed in particolare in quelle romane. In questo senso hanno esercitato un’influenza grandissima sulla mia musica. Vento d’estate di Niccolò Fabi e Max Gazzè, in effetti, mi emoziona ancora.
Un’altra tua grande passione devono essere gli anni ‘80.
Qualche hanno fa ho avuto un amore veramente smodato per gli Chic, che non sonno anni ‘80, ma hanno anticipato tutta una serie di sonorità che hanno influenzato tanti altri artisti che hanno cambiato radicalmente la concezione di pop: Madonna, Donna Summer… Sono anche un grande appassionato di musica disco. La mia quota rock, invece, è prevalentemente occupata da Lou Reed.
Torniamo a Trastevere. Ci sei nato, ci hai vissuto? Perché ha deciso di intitolare una della tracce più rappresentative del tuo album ad una piazza di quel quartiere?
La canzone è realmente ambientata in quei vicoli. La vicenda si è svolta in quella piazza ed ha avuto le sue ripercussioni per le stradine acciottolate di Trastevere. È un pezzo autobiografico e quella è la piazza dove ho trascorso la mia infanzia. C’è sempre stato un parchetto con gli scivoli e le altalene dove giocavo già da bambino. È un posto importante della mia vita, molto iconico ed è quasi una protagonista della canzone.
E Carabiniere?
Stavo in motorino a Roma e cantavo questo motivetto che mi faceva ridere “carabiniere non è colpa mia”, volevo scriverci una canzone, ma è nata come un gioco. Poi mi ricordai di una canzone di un gruppo canadese, i Destroyer, che hanno fatto un pezzo ambientato in Italia che pronuncia proprio quella parola “carabienere”. Non mi ricordavo un altro pezzo in cui avvenisse e mi impuntai di scrivere una canzone che si intitolasse così.