di Michele Canarino
Fin dai tempi in cui ero indaffarato con i compiti di Italiano, ho dovuto avere a che fare con una specie di blocco dello scrittore. In pratica, ho duemila cose in testa, ma non riesco a scriverle in modo chiaro e ordinato. Mi capita spesso di scrivere pagine e pagine, per poi rileggere e non capirci nulla. Il fenomeno si è amplificato ulteriormente negli ultimi mesi, con la tesi di laurea. Ho sempre pensato alla tesi di laurea come un lavoro relativamente semplice, o almeno non difficile come alcuni esami. Dal primo momento in cui mi sono trovato a scriverla, mi sono completamente ricreduto. Negli anni, mi sono abituato a scrivere in un certo modo, parlando sempre in prima persona e tenendo un tono molto franco nei confronti di chi legge. Elaborare un lavoro “accademico” mi risulta molto difficile proprio perché non posso essere diretto come sono abituato a fare. Scrivere frasi piuttosto complesse, articolate in maniera diversa non è mai stato il mio forte. Magari sono in grado di fare valutazioni e analisi anche piuttosto difficili, ma quando devo trasformarle in parole mi sento come un gatto in tangenziale. Per questo, ma anche tanti altri motivi, provo una certa invidia per chi scrive le canzoni. Mentre quando si butta giù un articolo ci si può dilungare a volte, scrivere una canzone significa dover sintetizzare in poche strofe quello che si vuole esprimere, tenendo conto anche di altri fattori “musicali”. Io non sarei mai in grado di fare una cosa del genere, anche perché mi trovo spesso a non capire me stesso e non saprei tirare fuori nulla di sensato.
Il mio sentimento nei confronti dei cantautori si è accentuato dopo aver visto il festival di Sanremo. Lasciando da parte i commenti del caso, la bravura di alcuni autori che vi partecipano è fuori discussione. Ron ha cantato un brano di Lucio Dalla, di una leggerezza indiscutibile, Max Gazzè ha scritto l’ennesima poesia e anche Diodato ha fatto una gran figura. Quello che mi sono chiesto, però, è se davvero gli artisti che partecipano al Festival sono il meglio della canzone italiana. Se si vogliono escludere alcuni generi che con il Festival c’entrano poco o nulla (vedi Clementino), la leva cantautoriale italiana ha molto di più da offrire di Moro e Meta. Penso a Brunori, a Colapesce, a Germanò, agli Ex-Otago, a Frah Quintale, tutti esempi di come la musica leggera possa essere integrata da ragazzi che fino ad oggi restano sconosciuti al grande pubblico. Per questo, nella diatriba tra chi vuole e chi non vuole l’indie al festival, mi schiero con i primi. Sarei molto curioso delle reazioni degli addetti ai lavori, che dopo anni di noia mortale si ritroverebbero a commentare qualcosa di nuovo.
Un altro che farebbe sicuramente un figurone sul palco dell’Ariston, è senza dubbio Galeffi.
Galeffi è Marco Cantagalli e al mondo dello spettacolo ci si è avvicinato molto, nel 2013 ha partecipato a “The Voice of Italy”, quel simpaticissimo programma che aveva Piero Pelù su una sedia girevole. Dopo l’esperienza televisiva, nel cammino di Galeffi c’è stata tantissima gavetta, al punto che il suo primo album è uscito dopo anni passati a fare piccoli concerti nei locali di Roma. Anche Galeffi viene da Roma, che da un paio di anni sembra essere il centro gravitazionale della scena indie italiana, ma non la racconta come Carl Brave e Franco 126. Non ne fa lo sfondo delle sue canzoni, che potrebbero essere ambientate tanto a Bologna quanto a Milano, piuttosto la vive e la sente da tifoso romanista, particolare dal quale proviene il titolo del suo primo album. “Scudetto”, si chiama così il primo lavoro vero e proprio di Galeffi. Lavoro che ha aspettato anni per vedere la luce a causa di alcuni problemi tra le case discografiche e Marco, il quale si è accasato solo lo scorso anno con Maciste Dischi, la stessa di Canova e Gazzelle, per i quali infatti Galeffi ha aperto più di qualche concerto.
Ho detto pocanzi di quanto invidio chi è in grado di scrivere in modo semplice e di farsi capire in modo altrettanto facile da chi lo legge o lo ascolta. Ecco, il più grande punto di forza di Galeffi è esattamente questo, la capacità di scrivere rime di una semplicità disarmante, riempirle di significato e farle cantare a memoria dopo il secondo ascolto. Come succede per Occhiaie o per Tazza di tè, pezzi che lo avvicinano di più ai cantautori italiani degli anni ’70 che alla scena musicale italiana attuale, che potrebbero appartenere più a Vianello che a Calcutta, salvo poi mettere dentro Polistirolo, che ha il suond più attuale di tutto l’album. E in effetti Galeffi non fa parte dello stesso mondo di Calcutta, ma appartiene alla scuola di Cremonini e di Jovanotti, di quegli artisti che riempiono gli stadi perché fanno cantare la gente. Galeffi è una sorta di voce fuori dal coro dell’indie italiano, è sicuramente il più pop di tutti, il meno controverso, quello più vicino all’idea che si aveva di artista negli anni in cui il festival di Sanremo è nato.