di Alessandra Virginia Rossi
Sappiamo tutti che quando “Mainstream” ha raggiunto le nostre orecchie è successo qualcosa di grosso. Ci credevamo alternativi, tutti impegnati ad ascoltare la rinascita indipendente della musica italiana. Sempre, però, col consueto disincanto snob che, a ragione, schifa gran parte del pop che percorre la strada maestra della tradizionale discografia italiana.
Sollevando la necessità di dare nuovo nome a ciò che aveva il fascino dell’alternativo e d’un tratto riempie gli auditori, il successo di Calcutta ha messo in crisi il rassicurante ordine delle cose. Lo ha fatto così, a colpi di sarcasmo, distacco ironico, un po’ di dramma e un ingrediente magico: il cazzeggio. Ecco il punto è proprio questo. Il linguaggio attuale è intriso di cazzeggio. Sul web, tra i giovani, tra i nuovi artisti impera uno spirito leggero all’apparenza, caustico nelle intenzioni. Il suo obiettivo è stemperare il tanto conclamato disagio, marchio generazionale, con un approccio scanzonato e sdrammatizzante. Frosinone è un inno al malessere interiore consolato, senza grande successo, da una risata forzata, da una scrollata di spalle che tenta di cacciar via una paranoia. Dall’immagine di un detersivo per piatti famoso che ti fa pensare ai tuoi ancora da lavare: l’unico gesto sovversivo che riesci a permetterti.
Tutto ciò è triste, ma allo stesso tempo rasserena. Accomuna una generazione e ne separa tutti i componenti alimentando quell’individualismo asociale che la contraddistingue. Inutile spiegare perché internet ne sia l’habitat perfetto. Dunque è lì che tutti i nuovi fenomeni hanno origine, si consumano, rimbalzano di bacheca in bacheca e muoiono sul nascere dei successivi. Tale modo di procedere, veloce, immediato, incontrollato, per forza di cose, non può esser preso sul serio. Anche il termine itpop è nato dalla leggerezza di uno scambio sulla rete. Ha avuto il seguito che ha qualsiasi tormentone web che sia abbastanza catchy e ha ispirato il brillante senso dell’umorismo di tutti quei bachecari che amano vedersi musicologi.
Prima di “itpop” è stata la volta di “indie”, un termine massacrato per delle ragioni che è interessante analizzare. Fino al 2007 circa, ispirati dai padri del genere, i Marlene Kuntz erano indie rock, gli Afterhours erano indie rock, i Verdena erano indie rock. Senza drammi e senza insurrezioni da parte dei puristi di un genere che ha avuto origine in terre anglofone, declinandosi nelle più varie forme tra gli anni ’80, ’90 e 2000. D’improvviso, in tempi più recenti, la proposta musicale italiana si è rimpolpata imponendosi in maniera decisiva, coltivandosi da sé, senza il tradizionale supporto delle major. “Indie” ha iniziato ad assumere un significato del tutto sconnesso dal genere musicale prettamente tecnico per assumerne uno più rivolto alla condizione, tutta nostra, in cui il fenomeno cresceva. Lo ha fatto a suon di autoproduzioni, nuove etichette, piccoli circoli ad iniziativa privata, grandi circoli poi chiusi come quello rimpianto praticamente da chiunque a Roma, il Circolo degli Artisti. L’indie italiano non ha mai avuto la pretesa di confrontarsi con il noise/garage rock o il post grunge made in USA e Regno Unito. Terribilmente fuorviante è stato dover per forza mettere a paragone i due per fare quello che è riducibile a un provinciale sfoggio di raffinati ascolti personali.