Alle radici di Carmen Consoli: L’eco che arriva lontano, ma torna sempre a Catania

di Antonio Zarrelli – foto di Manuela Cambio

Lo scorso 5 febbraio a Dublino si è concluso il tour europeo di Carmen Consoli: “Eco di Sirene”, organizzato con Tij events. Siamo andati a vederla alla tappa di Londra all’O2 Shepherd’s Bush Empire e abbiamo avuto l’opportunità di farle qualche domanda prima della sua esibizione. Ci ha accolto nel suo camerino con un bel sorriso, ma soprattutto, da buona sicula, ci ha pure offerto cibo e vino.


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Ciao Carmen, tu sei una cantautrice dalle radici molto forti, però ti sei anche misurata con tanti generi e hai amato artisti totalmente diversi tra loro. Da Micheal Stipe ad Annie Lenox, da Rosa Balistreri ad Aretha Franklin e Janis Joplin. Sei pop, rock, folk, hai esperienze di cinema e teatro. Quando scrivi un album o una canzone, come riesci a sintetizzare il tutto in qualcosa che comunque mantenga una sua unicità?

Innanzitutto ti direi che sono fortemente ancorata alle mie radici perché tutto ciò che gira intorno a loro è un modo per conoscere altre culture e io sono molto curiosa. Quando per esempio viaggio, visto che il linguaggio a me più affine è quello musicale, prima ancora di visitare un museo e la città in sé, voglio conoscere la musica del luogo che visito. In questo modo, a seconda di come sono strutturate le scale, le armonie, la poesia della musica riesco a capire come è la popolazione di quel luogo. Se è “tristognola”, allegra, se ha la saudade, se è ironica. La seconda cosa è il cibo. Siccome sono una buona forchetta, cerco di capire le genti dal tipo di cibo che consumano. In ogni caso le mie radici rimangono sempre le stesse. Ho una spinta alla conoscenza, ma prendo quello che devo prendere senza appartenere a niente. Poi lo rielaboro e lo riporto sempre a quelle radici che poi nel tempo non sono mai riuscita a estirpare per piantare in altre parti, malgrado i miei genitori mi abbiano dato la possibilità di farlo. Però, come i personaggi di Verga, tunnai a Catania. Sai l’ideale dell’ostrica? Il siciliano è come l’ostrica, più si stacca dallo scoglio, più perde forza e deve ritornare. Alla fine quest’ostrica raccoglie tutto, tutti i sapori di tutti i mari e torna.

Carmen Consoli è anche “impegnata”, come si diceva una volta: ambasciatrice dell’Unicef, attiva nella lotta contro le mafie e quella a favore dei diritti della donna, impegnata per i paese colpiti dai terremoti. Credi che ci sia ancora spazio oggi per la canzone di protesta o, più generalmente,  per una canzone sociale?

Certo. E dico purtroppo. Perché ci sono tante cose di cui dover parlare. Magari non lo fanno gli artisti strapassati in radio, perché forse le tematiche mainstream devono essere più leggere, non devono impegnarti più del dovuto. Però vedo un grande impegno soprattutto nei giovani. Devo dire da parte dei rapper più che dei rockettari. Negli anni ’90, ai miei tempi, questa cosa era affidata al rock. Adesso i rapper stanno dicendo cose più importanti nel mondo. La denuncia che prima faceva il rock (penso ai Nirvana, Sound Garden, Pixies, Violent Femmes, The Breeders) oggi la stanno portando avanti gli esponenti del rap. Io non sono esperta, ma devo dire che nella vecchiaia mi piacciono molto, forse perché a mio figlio piacciono. Mi diverte sentire queste rime ineccepibili.

Quindi apprezzi il panorama rap italiano?

Mi fanno impazzire i rapper italiani, perché l’italiano è la mia lingua e quando improvvisano, fanno delle cose pazzesche. In vecchiaia mi è venuta questa cosa, questo incrocio tra poesia e musica. Il mio preferito in assoluto, che non è neanche solamente rap, è Caparezza. Mi commuove. Mi piacciono anche le influenze dialettali di molti artisti e Caparezza rimane molto salentino. Alla fine il rap deve raccontare un disagio, che in Italia è quasi sempre un disagio della provincia. E quando è raccontato in dialetto, soprattutto del sud, mi dispiace dirlo, è più vero. Però sono di parte, amo anche moltissimo il teatro dialettale di tutte le regioni, penso a Emma Dante, ad esempio.

In fondo il dialetto, per alcune sue peculiarità linguistiche, può facilitare più che l’Italiano stesso a cantare generi che non sono propriamente di casa nostra.

Sai che hai ragione. Infatti io ho iniziato cantando nei locali e da una parte facevo Rosa Balistreri, avevo 13 anni, vestita da canterina dell’Etna. Dall’altro lato mi esibivo nei pub, vedi l’apertura mentale di mio padre siciliano, e cantavo Aretha Franklin. L’impostazione vocale è molto simile. Le scale cambiano, sono diverse però, vi faccio un esempio? [e ce lo fa proprio seduta stante]. L’impostazione è popolare ed è per questo che io sono appassionata di diverse culture. Anche se le tradizioni sono diverse, la base popolare è quella, non hai bisogno di microfono, l’impostazione deve essere d’urto, ti devi far sentire. Secondo me se Rosa Balistreri fosse nata in America sarebbe stata come Janis Joplin. E invece nasciu a Licata.

L’ultimo album “L’abitudine di tornare” ha in sé un titolo che può voler dire: anche se non mi vedi io ci sono, sto lavorando. Sappiamo delle tue diverse occupazioni, dalla mamma alla casa vacanze e più volte hai detto che non canti per i soldi. Dopo tutto il successo, i tantissimi premi, i dischi di platino, le esperienze in giro per il mondo, ti è mai capitato di pensare “non torno sul palco, sto bene così”?

No, per me il palco, sia che sia quello de La Cartiera di Catania, un pub dove ho iniziato, o che sia un grande palco di Londra, non fa differenza. Se io non avessi avuto questa grande opportunità di poter vivere di musica, una fortuna immensa, avrei continuato a farla. Catania lo permette, avrei fatto le mie seratine nei locali, il mercoledì qua, il giovedì là e sarei stata felice. È vero faccio molte altre attività, ma “L’abitudine di tornare” è soprattutto il fatto che, come in Nuovo cinema paradiso, mi piace tornare nei luoghi del passato, nella mia stanza di quando ero piccola e tanto altro. E mi piace tornare nei luoghi di sempre con un’esperienza diversa, dopo avere preso tanto altrove. E spesso le esperienze mi cambiano e quando torno in certi luoghi, immutati in realtà, li vedo con altri occhi. Questo è successo quando ho deciso di tornare a vivere in Sicilia con mio figlio. Vedo Catania con occhi completamente diversi. Sono di parte, ma per me è il miglior posto dove vivere ora. Prima, pur amandola, soffrivo e sognavo solo di andare via. Invece adesso ne accetto tutti i difetti: ha preso il sopravvento un amore che mi fa vedere solo i pregi. Forse è anche perché è migliorata nel tempo, ma sono tornata con occhi diversi e godo al cento per cento delle sue cose belle.

In una delle tue ultime collaborazioni hai reinterpretato Bianca con Manuel Agnelli, che sta vivendo una seconda giovinezza, se si può dire.  So che nella vita “mai dire mai”, ma alla luce di un format come X Factor che ha visto nella sua ultima edizione due giudici quali Agnelli e Levante, direttamente dalla scena indipendente, tu ti ci vedresti nelle vesti di giudice?

No. Perché devi essere portato per fare una cosa del genere. Se io lavorassi in una scuola a porte chiuse e avessi dei ragazzi da seguire sarei molto obiettiva e direi le cose come vanno dette. In un programma televisivo davanti agli altri non ce la farei a dire una cosa negativa a un ragazzo che si sta esibendo lì. Direi a tutti che sono bravissimi, perché non posso dire cose negative in pubblico. Non sarei in grado di abbattere nessuno, di bocciarlo, promuoverei tutti. Sarei fondamentalmente un giudice inutile. A porte chiuse sarei quella che sono invece: sincera, spietata, ma in pubblico non mi va di mettere alla gogna nessuno. Pensare  che questi ragazzi arrivano lì, fanno selezioni allucinanti e dipendono dalla tua parola. Magari tu un giorno hai la vena storta e non ti arrivano. Ero in imbarazzo a scuola quando i professori mi giudicavano alla riunione dei genitori ad alta voce e io speravo che nessuno fosse lì vicino. Quindi, se non fosse un programma della televisione, dove tra l’altro mi sento un’imbranata, potrei fare qualcosa.

Parlando di canali di diffusione musicale, in Italia sta vivendo un buon periodo il settore delle etichette indipendenti, che si stanno ritagliando una bella fetta di pubblico. Addirittura sembra che le persone stiano ritornando ai piccoli live nei locali. Qui su Talassa ogni mese in un’apposita rubrica dedicati agli artisti e gruppi emergenti, Talassascolta, consigliamo cinque canzoni tra le nuove uscite mensili. Il primo articolo è uscito ad Aprile scorso e tra la cinquina del mese c’era una certa Gabriella Lucia Grasso con Cunta e pigghia  in “Vussia Cuscienza”, prodotto dalla Narciso Record. Tu ne sai qualcosa?

Con i miei genitori fondammo questa etichetta nel 2000. Era il sogno di mio padre, bravo musicista, e lo facemmo dopo che era andato in pensione. Lo scopo è quello di produrre progetti che valorizzino la nostra cultura. Uno è Gabriella Lucia Grasso, un altro si chiama “Le Malmaritate” che tra l’altro cantano in dialetto. Sono diverse donne, bravissime musiciste. C’è anche una ragazza laziale. Questi progetti sono molto piccoli, però ci vuole tanto sacrificio per portarli avanti, per cui mi fa piacere che abbiate preso in considerazione Gabriella. È una cantautrice catanese, fa un misto tra tango argentino e musica siciliana, ha trovato una connessione culturale. Noi l’abbiamo molto apprezzata, e tra l’altro io sono la bassista ufficiale del disco.

A proposito di questo, come si approccia la Narciso Record per scegliere gli artisti da produrre?

Io vorrei produrne molti di più di quelli che sto facendo ora, però siccome ogni cosa che facciamo cerchiamo di farla bene, potrei produrne tanti ma poi non fare molto per ciascuno di loro. Con Gabriella abbiamo lavorato tantissimo, ci siamo mossi tra ufficio stampa, premio Tenco, impegni vari, ha aperto diversi concerti. Per questo insomma non riusciamo a concentrarci su troppi progetti, e ci capita di dire di no a qualcuno che ci piace. Puntiamo alla qualità e soprattutto a trovare un giusto spazio ad artisti che hanno qualcosa da dire e che meritano.

Tra poco partirà la seconda edizione di un nostro torneo social, Il fantaetichette, in cui i partecipanti provano a creare, rispettando determinati parametri, una fantalabel di cinque artisti italiani e stranieri. Tu prova a darcene tre. Uno che ti ha ispirato, uno che andresti a vedere a un concerto domani e un emergente di cui sentiremo parlare.

Un emergente, anzi un “emerso” ormai, direi Motta, ma anche Bianco mi piace. Uno che mi ha ispirato è senz’altro Battiato. Domani andrei a vedere la Vanoni. È troppo brava, tuttora è bravissima.