Recensioni Fuori Tempo Massimo: Iron Maiden -“Iron Maiden”

di Giovanni Colaneri

Era una splendida giornata primaverile, ricordo un sole accecante, una brezza piacevole e un silenzio mistico. Ricordo quasi tutto del giorno in cui, anni e anni fa, ascoltai “Iron Maiden” per la prima volta. L’autista dell’autobus in cui ero seduto ha ancora chiare in testa le bestemmie che ha lanciato mentre mi dondolavo avanti e indietro su un corrimano facendo cigolare tutto quanto. Avevo le cuffie nelle orecchie ed ero ben concentrato sulle ritmiche prorompenti di Prowler, il primo brano dell’album, nonché brano d’esordio di una delle band britanniche più famose del mondo.

Il progetto nacque dall’idea di Steve Harris, noto e influente bassista nonché leader del gruppo, nel lontano 1975 a Leyton, un quartiere londinese. Si tratta di un gruppo nato sostanzialmente dal nulla, che ha faticato e lavorato molto, inveendo a gran voce contro le case discografiche, come tutte le band emergenti, per riuscire a pubblicare un disco. Possiamo immaginare l’incontro fra gli Iron Maiden e la EMI Records sia come il tocco miracoloso della mano di Dio, sia come una botta di culo impressionante. Il punk aveva monopolizzato le discoteche, i lettori di musicassette, la testa del pubblico e, evidentemente, i maroni di qualcuno che lavorava alla EMI Records. I Maiden erano riusciti a farsi notare con numerosi concerti anche al fianco di grandi nomi (come i Sex Pistols), ma il loro impegno non fu riconosciuto al punto che proposero loro di cambiare genere e dedicarsi alla musica che allora andava più di moda. Ovviamente non seguirono il consiglio e, il 14 aprile 1980, uscì il loro album debutto, registrato l’anno precedente alla Kingsway Studios.

 

L’impatto che questo album ebbe sulla critica e sull’opinione pubblica si può descrivere con una semplice immagine: un metallaro che picchia dei punkettoni. In effetti, l’album significò un pesante schiaffo in faccia quasi per chiunque. L’originale copertina, disegnata da Derek Riggs, introduce la figura horror di Eddie The Head, la mascotte della band, che dal primo album in poi sarà su ogni copertina; grazie a Clive Burr per la prima volta viene utilizzata la doppia cassa e istituzionalizzata come costante musicale destinata ad influenzare ogni batterista del genere metal. Al di là dell’aspetto puramente tecnico e pionieristico che riguarda la tecnica al basso di Steve Harris, l’uso delle chitarre di Dave Murray e Dennis Stratton, o la voce di Paul Di’Anno, l’atmosfera del disco ha contribuito forse più di tutto il resto a connotare la sua originalità.

Gli Iron Maiden sono stati il primo gruppo a rappresentare, in un genere quasi del tutto nuovo, concetti, stilemi, dimensioni e manifesto del mondo New Wave anni ’80, in un contesto dove i “Judas Priest” e i “Black Sabbath” avevano da poco dato inizio a un’era di misticismo malefico e oscuro, “Dark” per i londinesi del tempo. Non fu propriamente il testo di Prowler (che parla di un maniaco sessuale) ad attribuire quest’atmosfera all’album, tantomeno quello di Phantom Of The Opera (ispirato dalla famosa opera di Gaston Leroux) o di Remember Tomorrow (brano dedicato al padre scomparso dal cantante Di’Anno), i cui punti di forza si riconducono nel sinolo tra le storie raccontate e l’originalità delle melodie. Harris aveva colto la palla al balzo, servendo sul piatto a un’intera nazione (e di conseguenza a tutto il mondo) un ambient infernale immerso in un eterno dilemma tra attrazione e repulsione per il bene e per il male. Esprime una religiosità pagana, superstiziosa, richiesta come sfogo liberatorio ed evasione dall’asfissia borghese cittadina alla base del movimento, appunto, New Wave.

Dal momento in cui “Iron Maiden” ha fatto il suo ingresso nelle case del popolo, tramite radio e giradischi il mondo non è più stato lo stesso.