Recensioni Fuori Tempo Massimo: George Harrison — “All Things Must Pass”


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di Alvise Danesin

In questa rubrica, nonostante la possibilità di raccontare album classici, non ho ancora mai trattato un disco dei Beatles. Eppure sarebbe la scelta più logica considerato che probabilmente non ne esistono di più classici. Forse non mi sento ancora pronto ad affrontare una così grande responsabilità, consapevole del fatto che non è mai semplice confrontarsi con tali mostri sacri. Ho provato quindi a scrivere di qualcosa che reputo più “semplice” ma senza allontanarmi troppo: magari un album solista proprio di uno del quartetto inglese. “Semplice”, non potevo essere più superficiale. Non solo ho avuto la malsana idea di pensare che uno dei quattro di Liverpool potesse mai creare qualcosa di “semplice”, ma ho anche scelto il primo disco di canzoni originali pubblicato da un ex Beatles a raggiungere (non a caso) il primo posto nella classifica inglese, rimanendoci per ben sette settimane. Era il 2 gennaio del 1971 e George Harrison arrivava in vetta alle classifiche con il primo triplo album di un artista solista.


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“All Things Must Pass” è un vero diamante incastonato agli inizi degli anni ‘70 su cui è possibile scorgere i riflessi del trascorso “beatlesiano” dell’autore e coglierne quelle qualità cantautorali che fino a quel momento erano rimaste sopite e seminascoste. Il disco infatti è caratterizzato da una sovrabbondanza di materiale per via della grande quantità di brani che Harrison aveva già pronti dai tempi della band, ma che non gli permisero di pubblicare. Lo stesso artista aveva dichiarato “sui dischi dei Beatles mi facevano pubblicare al solito appena uno o due brani, quindi avevo un sacco di canzoni messe da parte”.

L’album parla d’amore, di liberazione, di spiritualità come fulcro della vita, e lo fa anche attraverso le grandi collaborazioni che hanno contribuito a rendere ancora più grande questo capolavoro: Eric Clapton, Ringo Starr, Phil Collins, Billy Preston, Gary Brooker dei Procol Harum, Ginger Baker dei Cream e Alan White, futuro batterista degli Yes. E poi ancora Bob Dylan, che insieme ad Harrison scrive la bellissima canzone d’entrata del disco, I’d Have You Anytime, e che “cede” la sua If Not for You per una stupenda reinterpretazione acustica. Tra tutti bisogna però ricordare il massiccio lavoro di Phil Spector che letteralmente riempie ogni brano per mezzo del suo caratteristico “muro del suono”, moltiplicando il numero di tutti gli strumenti, come ad esempio le quattro o cinque chitarre o le due batterie.


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Il disco è costellato di brani che brillano di luce propria in cui George Harrison riesce a concretizzare la propria spiritualità in modo squisitamente semplice. Come in My Sweet Lord e in Hear Me Lord dove usa un linguaggio essenziale, quasi a cantare degl’inni o delle preghiere. Oppure come nella title track, poesia malinconica e luminosa: “It’s not always going to be this gray”. Beware The Darkness invece, come una parabola biblica in forma di ballata, invita a prestare attenzione all’oscurità della vita quotidiana. Non si possono non citare Isn’t It a Pity, canzone pubblicata in due versioni su questo stesso album, e What Is Life, bellissima e incalzante dichiarazione d’amore.

Harrison con questo disco dimostra una volta ancora al mondo intero quanto i Beatles fossero speciali, anche presi singolarmente. Ma se è vero che tutte le cose devono passare, è vero anche che questo disco e la sua musica rimarranno ancora per molto, molto tempo.