Recensioni Fuori Tempo Massimo: Pixies -“Surfer Rosa”


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di Giovanni Colaneri  

Ti trovi nella Somerville del 1987, città del Massachussets, più precisamente dinnanzi all’edificio della QDivision Studios. Il motivo della tua presenza qui è semplice: stai per testimoniare l’avvenimento che detterà le regole del garage rock, punk rock e grunge. Di qui a poco, in quello che sarà il 1988, tutto il mondo sarà testimone dell’uscita di “Surfer Rosa”. Entri nell’edificio.

Stai camminando con passo incerto all’interno di un corridoio, alternando lo sguardo tra una parete e l’altra alla ricerca di un pannello fonoassorbente che non sia semidistrutto e rattoppato con il nastro adesivo. Il fumo di sigarette volteggia vicino al soffitto come se una fitta nebbia stesse scendendo verso il terreno, le luci sfarfallano, le mattonelle color cera del pavimento scricchiolano sotto i tuoi passi, mentre ti dirigi verso l’ultima porta in plastica e compensato da cui senti provenire una serie di suoni striduli e confusi di chitarre e di voci, accompagnati da un’inconfondibile e ripetitivo “battere” di rullante e cassa. Spalanchi la porta e la chiudi alle tue spalle: sei entrato in un garage di 5 metri per 5, alto 3, dove i Pixies, la voce Black Frank, il basso Kim Deal, la batteria David Lovering e la chitarra Joey Santiago, stanno tentando di demolire le pareti con la propria musica. Sono quasi sepolti sotto un groviglio di cavi, stufe elettriche appiccicate agli amplificatori valvolari, tazze di caffè al fianco di bottiglie di birra e mozziconi di sigaretta che si sostituiscono alla moquette. Tu ti siedi su un Marshall mezzo scassato, infili le mani in tasca e spegni il Walkman che ti eri dimenticato acceso, poggi la schiena su alcuni dei pannelli fonoassorbenti improvvisati che tappezzano le pareti, poggi le Converse su uno sgabello avanti a te, chiudi gli occhi e ascolti.

Bone Machine, Break my body, Something against you, Gigantic, River euphrates, solo parole, una a fianco all’altra che descrivono un sentiero, parole sfumate in confronto alle note che uscivano da quegli altoparlanti gracchianti. Storie particolari da raccontare non ne hanno, piuttosto una vera e propria enciclopedia di sensazioni e istinti. Una mano che sbatte sul muro, un breve lamento stridulo, un respiro affannoso accompagnato da un “crack” elettrico di un pick-up, riff prorompenti che rimbombano tra le pareti di un garage improvvisato, movimento, sudore, una sinfonia parossistica paradossalmente ben gestita che trasporta in un mondo moderno di critica e anticonformismo. Poi c’è “Where is my Mind”. Sei andato di fronte alla porta di un bagno, dove Frank Black ha spostato la sua strumentazione per registrare con la convinzione di un suono più realistico. Improvvisamente sei nel nulla, congelato, non puoi far altro che vagare e chiederti: dov’è la mia mente? Questa canzone ti trasporta come fa l’acqua del mare con un corpo morto. Galleggi, diretto verso un posto che non conosci, ormai ignaro del fatto di esserti spedito autonomamente verso un futuro ignoto, accompagnato dall’oscillazione ipnotica delle onde e il sole che ti accarezza il volto passando tra le nubi che si accalcano. Ma pian piano affondi, inesorabilmente, avvolto dal freddo e dall’oscurità. Allora ti chiedi, ancora una volta: dov’è la mia mente?”.

Sei lì, accasciato su un termosifone rotto antistante uno dei tanti amplificatori, hai i brividi, il fiatone, apri gli occhi e percorri mentalmente la strada che ti conduce verso casa, ascoltando ancora quelle note tanto confuse quanto emozionanti, tanto cattive quanto accomodanti. Non vedi, ascolti. Ascolti la porta di casa, la tua famiglia, ma anche i tuoi amici, l’amore della tua vita, l’amico con cui combinavi danni da piccolo, la bicicletta su cui hai imparato a pedalare, ascolti il dolore, le delusioni, il freddo delle notti fuori dai pub, l’umido dell’erba al mattino, la pioggia delle giornate grigie d’inverno, lo smog sopra la città, le rivolte in piazza, le lotte per la libertà, la sofferenza degli oppressi, la droga che sai di non poter ignorare, la paura della morte. Tutto ciò al grido di “non mi interessa, io sono oltre, sono superiore, non provo dolore, non provo serenità, sono uno spirito libero, non ho bisogno di aiuto”.

Cactus, Tony’s Theme, Oh my Golly, Vamos (Surfer Rosa), I’m Amazed, Black is Red, l’album si avvia verso il finale e tutto attorno a te comincia a diventare sfocato, provi sensazioni sconosciute, la musica ti cattura e cadi piano piano in uno scivolo di emozioni e ricordi. Improvvisamente ti rendi conto di aver toccato il suolo. Ti volti a guardare la tua vita e pensi che non hai avuto abbastanza tempo per viverla come avresti voluto. Allora senti dentro te accendersi una fiamma d’ispirazione, un impeto di coraggio e determinazione, perché sai che hai ancora tempo e rimedierai a ciò che hai mancato di pensare, di essere, di fare.