Wrongonyou: tra il fantasma dei Bon Iver e papà Gassman


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di Antonio Zarrelli; foto di Manuela Cambio

Domenica scorsa abbiamo assistito alla tappa britannica del “Gran Finale 2017, Dardust+Wrongonyou” tour al Cargo di Londra. La serata, sempre Tij Events nell’organizzazione, ha visto la coppia di artisti regalare grandissime emozioni dal palco. Un plauso particolare va a Dardust (intervistato da noi qualche giorno fa) che, nonostante abbia subito al mattino il furto di una delle valigie con le sue attrezzature di scena, non ci ha fatto mancare nulla del suo spettacolo.

Noi prima del concerto abbiamo incontrato Wrongonyou, ormai uno degli artisti più apprezzati della scena italiana, scambiando letteralmente quattro chiacchiere, in scioltezza con una prevalenza di toni un po’ alla romanesca e qualche bella risata. Ora, quando vedi uno come Marco Zitelli, la prima cosa che pensi   ̶   con la sua camicia a quadri e cappello in testa, barba non da hipster, ma da vero uomo dei boschi   ̶   è che potrebbe essere il compagno buono della classe, il ragazzone con cui vai a prenderti una birra. Poi lo vedi salire sul palco, ascolti la sua voce, così piena di tante cose che la testa se ne va in giro per il mondo, e quasi fai fatica ad associare le due cose.


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Quando si legge di te spesso il preambolo è che tu sia il nuovo esponente di un folk italiano. Ti si accosta a diversi artisti come Bon Iver,  e non manca mai il riferimento a John Frusciante. Tu come consideri questa cosa?

Diciamo che mi si è appiccicato addosso questo fantasma. Una volta una webzine scrisse “Il Bon Iver de noantri”. Da quel momento ho avuto appioppato il fantasma di Vernon, che comunque apprezzo tanto. Mi piace molto. All’inizio mi ispiravo a lui, quindi per alcune cose sembrava un’emulazione. Per adesso ho preso altre strade, sto cercando di sviluppare sempre più una mia identità, di fondere un po’ di elettronica con l’acustico. Di base c’è sempre il legno ma è contornato da parecchie cose.

Di solito quando un artista italiano si esibisce a Londra, la domanda di rito è “quale è il tuo rapporto con il pubblico anglosassone”. Qui la faccio al contrario. Nasci come artista con una certa tendenza internazionale, tante le tue esibizioni sui palchi europei. Pensi di avere definitivamente fatto breccia nel pubblico italiano?

Sì, direi proprio di sì. Sinceramente, vedendo come vanno le cose musicalmente in Italia, si è molto allargata la visione della musica, fortunatamente, da un annetto a questa parte. La gente ha ricominciato ad andare ai concerti, anche più piccoli, non solo ai palazzetti. All’inizio temevo un po’ che cantando in inglese non ci sarebbe stato molto riscontro. Invece, essendo italiano, faccio molte più date in Italia che all’estero, e vedere che, non solo a Roma, ma anche in altre città le sale si riempiono, come minimo trecento persone, a Roma e Milano anche mille, mi ha molto colpito. Anche perché l’inglese in Italia adesso va bene, però c’è sempre la cosa dello straniero che, a priori, vede male l’italiano che canta in inglese, un po’ per l’accento un po’ per altre cose. Io ho un accento misto, praticamente metà giamaicano, metà della Georgia del sud, imparato ad Atlanta dove sono stato un po’ di mesi. C’è una tendenza per cui l’italiano che canta in inglese non va bene, e un po’ mi offende questa cosa. Ad esempio José Gonzáles, mezzo spagnolo e mezzo svedese, ha un inglese orribile per quanto mi riguarda. Bravissimo, per carità, ha bellissime vocalità, suona la chitarra da paura, ma l’inglese proprio no. Eppure va forte, quindi dovremmo riuscire a buttare giù questo muro.

 

 

Che ne pensi del modo in cui si ascolta la musica in Italia, di ciò che va in classifica e che differenze noti con l’estero?

All’estero ascoltano proprio tutto, anche in Italia ci si sta evolvendo. In generale adesso è tutto pop. Ad esempio in Inghilterra, non so bene chi è primo in classifica in questo momento, si salta da Drake a The Weeknd a Miley Cyrus. E poi magari c’è Michael Kiwanuka, uscito da zero e subito al primo posto in Inghilterra, boom. C’è una visione più completa della musica. In Italia è quasi la stessa cosa, anche se ci sono i mostri sacri, Tiziano Ferro, Jovanotti, Cremonini, che col nuovo disco farà un casino. Poi, però, vedi anche numeri grossi con artisti indipendenti o, se non più indipendenti perché hanno un’etichetta, comunque “Indie”. Anche io sinceramente sono rimasto abbastanza stupito di aver fatto un milione di visualizzazioni con Killer e due-trecentomila con altri pezzi. Anche perché all’inizio, andando a vedere su Spotify gli ascolti in base alle città, ne facevo di più a Los Angeles, Chicago e per ultima Roma. Adesso invece vengono prima Milano, Roma, Napoli. Quindi c’è proprio un ascolto a casa.

Siamo a Londra, la metropoli d’Europa, più passa il tempo e più devi stare in giro tra tour, promozione e cose varie. Per uno che ama la vita del bosco e che ci registra pure, tutto questo quanto influisce?

Ride. Tanto. Nel senso che io nemmeno sto a Roma, sono ai castelli romani, in campagna. Faccio cento metri e davvero comincia il bosco. A un certo punto stare sempre sull’asfalto è un po’ pesante. Cioè, va bene tutto perché se sto qua significa che sta funzionando alla stragande. Però ogni tanto ho bisogno di staccare un secondo, altrimenti è un bel casotto.

Il tuo sembra un percorso opposto a tanti italiani, sei partito quasi scoperto dal professore di Oxford, canti perfettamente in inglese. Hai mai pensato a un album in italiano, scrivi mai in italiano?

Tutti, tutti, e dico tutti, mi chiedono “quand’è che fai un pezzo in italiano?”, pure i produttori. Ci sta. Sto provando. È proprio un altro tipo di scrittura a cui non sono abituato. Nel senso che con l’inglese puoi andare dietro alle immagini, dici una parola e hai descritto un’immagine, mentre in italiano devi descrivere ogni particolare per arrivare a quell’immagine. Così è come la vedo io, forse mi complico pure un po’ la cosa. Faccio fatica, però ci sto provando a buttare giù qualcosa. Poi sono anche disposto a collaborare con altri artisti che magari scrivono testi e rimanere sul mio stile musicale, così da fondere il tutto.

 

Hai curato la colonna sonora per Il premio, film di prossima uscita di Alessandro Gassman. Raccontaci un po’ come è andata questa esperienza.

Mi hanno viziato da morire. È successo tutto per caso. Mi aveva scritto Gassman su Twitter, ma io Twitter non lo uso. Quindi il giorno prima che partissi per registrare il disco in Califiornia, mi chiama Dario Giovannini, il capoccia della Carosello e mi dice “guarda che ti sta cercando Gassman”. E io “come mi sta cercando Gassman!”. Vado su Twitter, mi metto a ricercare le password che chiaramente mi ero perso e trovo due messaggi di Gassman. Il primo “Ciao sono Alessandro Gassman vorrei parlarti del mio ultimo film”. Poi un altro “Ci riprovo, sono Alessandro Gassamn vorrei parlarti del mio nuovo film”. Ci sentiamo a novembre scorso e mi chiede di mettere un paio di miei pezzi come colonna sonora. Il film è on the road, perciò ero veramente contento. Poi mi richiama e mi chiede se voglio fare tutte le musiche invece. Cazzo sì, magari. Io la maggior parte delle canzoni le faccio anche guardando film, mi interessano sempre le immagini. Poi alla terza botta mi chiede “Oltre la colonna sonora, ti andrebbe di fare mio figlio nel film?”. Io mi sono messo a ridere e gli ho risposto che ho fatto solo le recite alle scuole medie, anzi alle elementari. Ma lui mi dice  che da quando sentiva le mie musiche scrivendo la sceneggiatura del figlio aveva in mente solo la mia faccia. Alla fine mi propone il provino e fa: “Se sei un cane te lo dico”. Ho fatto il provino, avevo pure studiato la parte, e alla fine la produzione e tutti quanti mi ha hanno detto “che bomba, che figata” e Gassman era molto contento, perché era tutto come si era immaginato.

Abbiamo chiesto pochi giorni fa a Dario Faini della vostra collaborazione sulla versione di Birth. Ci dai la tua versione dei fatti?

Lo conoscevo, artisticamente parlando, dal primo ep che mi piaceva un sacco. Non ci eravamo mai incontrati negli ultimi due anni da quando lo avevo scoperto. Mi contatta e mi chiede di mettere qualcosa su Birth. Gli ho detto che avrei provato. Però io faccio di norma molta fatica a mettere parole e linee vocali su qualcosa che è già definito. La canzone era quella e non potevo cambiare accordo o melodia. Faticavo e dopo due settimane che non usciva niente mi disse di vederci. “Vieni a Milano, facciamo un pezzo nuovo” e mi ha fatto il trabocchetto. Sono andato a Milano pensando al pezzo nuovo e invece mi fa “Dai, lavoriamo su Birth”. Alla fine in tre ore è uscito il pezzo che secondo me è pure figo.

A noi ha parlato anche di una tagliata a un ristorante vicino l’ippodromo.

Ah sì, è vero. Prima di salire a Milano ci siamo beccati a Roma alle Capannelle, io ho preso la tagliata, lui il pollo.

Ultima domanda: dicci il nome di un artista italiano che varrebbe la pena approfondire.

Bon Iver (ridiamo). Rkomi, Mamhood, Mecna.

Ma alla fine sì, confermiamo, con Marco te la potresti prendere una birra. Ma sicuramente ormai è andato oltre: Vernon, forse, userà meglio l’account di Twitter, ma di certo non ha fatto un film con Gassman.