Dardust sull’asse Berlino-Reykjavik-Londra: “Giocare facile non mi interessa”


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di Alessandra Virginia Rossi

Dario Faini è un pianista, compositore, autore, produttore. Ha prestato la sua penna per brani di successo di tantissimi cantanti italiani, da Thegiornalisti a Fiorella Mannoia, passando per Gianni Morandi e Fedez. Una “carriera multiplatino”, come l’ha definita.

Ma Dario è soprattutto Dardust, un progetto elettronico innovativo, che fonde il piano minimalista e le correnti elettroniche nordeuropee.

Abbiamo deciso di fargli qualche domanda, pochi giorni prima del suo concerto a Londra, città chiave del suo progetto musicale, dove il 26 novembre condividerà il palco con Wrongonyou.

 

 

Berlino, Reykjavik, Londra. La tua musica ha fatto di queste città le sue muse. Citi spesso l’effetto di Berlino su Bowie, tuo grande mito. Come agisce l’influenza di una città su un artista?

Ogni città si porta dietro un immaginario dato dalla sua storia, dai suoi spazi, dalla sua architettura, dalla gente del posto e tanto altro ancora. È normale poi che ognuno di noi in base all’idea che si fa di un posto ci proietta quello che vuole. Per me Berlino è la Berlino della fine dei ‘70 dove Bowie e Iggy Pop andarono a ricostruire un nuova creatività lontana dagli eccessi di Los Angeles. È la trilogia di Bowie-Eno. È la Berlino elettronica del Berghain ma anche quella di oggi.

L’estero è sempre un po’ il rifugio di chi sperimenta. L’Italia e la sperimentazione sembrano inconciliabili, perché?

Non è detto ancora. In linea di massima spesso manca una visione più coraggiosa sul lato artistico. Tendiamo un po’ a essere conservatori e a non farci condizionare troppo da quello che va di moda all’estero. O, perlomeno, ci mettiamo dieci anni a farlo nostro. Ma negli ultimi mesi con la trap e tanto altro ci siamo anche noi omologati e standardizzati. L’ideale sarebbe dare una nostra visione che sia unica e riconoscibile anche all’estero. Un equilibrio lo troveremo prima o poi.

Hai scelto Wrongonyou per una meravigliosa versione di Birth. Marco Zitelli è un po’ il più internazionale del nostro panorama giovane. Come vi siete incontrati e com’è nata la collaborazione?

Gli ho semplicemente scritto su instagram. Poi ci siamo beccati a Roma a Capannelle davanti a una bella tagliata di fianco all’ippodromo. Ci siamo trovati subito. A Milano in un pomeriggio è nata Birth. E a Londra la suoneremo.

Hai parlato della tua musica come qualcosa di libero, che ti permette di prenderti una pausa dal songwriting e in cui ognuno può trovare le immagini che preferisce. Definisci il tuo genere “pop cinamatico strumentale” e il video di Sunset on M. è un tributo a The Man who fell to Earth. Tu come “visualizzi” la tua musica? Ti capita di associarla a delle immagini mentre componi o anche durante il live?

In verità, il processo è assolutamente istintivo e naturale al primo approccio. Mi metto al piano oppure mi viene in mente un mondo sonoro da sviluppare. Quando sento che quello che sto facendo nel flow o brainstorming mi emoziona metto un paletto e metto l’idea nella cartella ideale dei brani da sviluppare. Le immagini spesso vengono dopo. È ovvio che se invece sono in Islanda o Berlino quel flow istintivo è totalmente condizionato dal posto, quindi in un modo o nell’altro racconta il posto in cui sono e le sue vibrazioni.

 

Sei un songwriter per i maggiori interpreti del pop tradizionale italiano eppure per esprimere te stesso metti a tacere la parola. Secondo te si comunica di più con la forma solo strumentale?

Senza le parole hai possibilità di comunicare qualsiasi cosa. È l’ascoltatore che proietta quello che sente e che vuole, quindi diventa ancora più potente la strumentale. La sfida è però di agganciarlo subito alla traccia senza farlo skippare.

Per un interessantissimo incontro a Torino per la TEDx hai parlato di Erik Satie, Bach, Kraftwerk e Shoegaze; di atmosfere e spazi aperti in Islanda e delle industrie a Berlino. Dovrebbe esserci più occasione di parlare così al pubblico soprattutto giovanile. Per te che vivi la musica in maniera così libera, ha senso parlare di educazione all’ascolto?

Educazione forse è un po’ troppo. Io dico solo che bisogna rallentare un attimo e recuperare quei 21 grammi di anima di ogni opera musicale senza fagocitare playlist una dietro l’altra senza capire un cazzo. “Cazzo” l’ho messa per essere diseducato.

Nile Rodgers ha detto di David Bowie: “Il suo motto avrebbe potuto essere: ‘Non fare la cosa più logica, prova quella più illogica e vedi se funziona’. E sapete cosa? La maggior parte delle volte ha funzionato”. Potrebbe essere anche il tuo motto?

Beh, sì. Considera che dopo una carriera multiplatino come autore, potevo mettere su una band, produrre un cantautore o fare qualsiasi cosa come personal project. Invece ho fatto la cosa più difficile del mondo. Un progetto strumentale fuori dalle categorie. Giocare facile non mi interessa.