di Marco Beltramelli
Massimiliano Raffa è un cantautore punk messinese emigrato prima a Bologna e in seguito a Milano per cercare fortuna attraverso le sue spiccate doti musicali. La tracotanza creativa di Massimiliano prende forma attraverso il progetto Johann Sebastian Punk, che si esibisce per la prima volta al MEI di Faenza in occasione di una celebrazione della carriera di Enrico Ruggeri. L’album di debutto dei JSP, “More Lovely And More Temperate”, arriva tra i finalisti al Premio Tenco, eppure, gran parte della sua fama Massimiliano l’acquista attraverso una canzoncina scritta quasi per gioco Voglio vivere a Voghera, parodia del cantautore indie degli anni ’10. Mai piegatosi alle regole del mercato, Johann SebastianPunk torna a tre anni di distanza con il suo nuovo album, “Phoney Music Entertainment”, uno dei progetti dal respiro più internazionale nel nostro paese. Ce lo siamo fatti raccontare:
Pochi progetti musicali possono vantare un nome che rispecchi così a fondo la loro weltanshauung stilistica…
Infatti, anche se questo progetto all’inizio non si chiamava così. Avevo ipotizzato di utilizzare il mio nome reale, ma ho pensato fosse più appropriato riservarlo per altri frangenti, come le colonne sonore, un mondo a cui mi sono approcciato solamente negli ultimi tempi. In realtà JSP mi ha un po’ stancato perché, in fondo, quando digiti il mio nome su Google, c’è sempre un altro stronzo che appare prima di me. Ma Bach fu capace di portare stupore e turbamento a platee sempre più ampie stravolgendo i canoni della musica classica fino ad allora vigenti. Bach fu molto punk. Comunque, sicuramente, questo nome esprime bene il mio intento di cogliere la musica occidentale nella sua forma più complessa e, allo stesso tempo, il sovvertimento dei suo stessi canoni compositivi. Il matrimonio tra la componente nichilista del ’77 e il manierismo perfezionista del tardo barocco.
Partiamo proprio dagli albori, voi siete nati nel segno di Enrico Ruggeri?
Così si può dire. Avevamo vinto un contest portando una cover inglese di Contessa, estremizzandone il lato punk già insito nella versione dei Decibel. A Enrico piacque molto e ci invito al MEI di Faenza nel 2013 a suonare per la celebrazione dei 30 anni della sua carriera. Quella, in un certo senso, fu la nostra prima esibizione ufficiale. E da lì in poi le cose cominciarono a prendere forma.
Premio Tenco, Voglio vivere a Voghera ecc…
Ricevemmo una nomina come migliore album di debutto al premio Tenco ma, in realtà, non avevamo nessuna possibilità di vincere. Che io ricordi, però, siamo forse l’unico caso di una candidatura alla finale nonostante l’inglese. Per quanto riguarda Voghera, invece, bisogna risalire a qualche anno precedente, intorno al 2011\2012. Scrissi quella canzoncina per fare il verso alla composizione tipica della scena indipendente italiana degli anni ’10. Quando mi scontrai con quel nuovo genere di cantautorato che elevava ad arte il grigiume del provincialismo e la quotidianità. Tematiche che, a mio avviso, non andavano di pari passo con l’idea di musica pop che coltivo, che venero. Con la mia idea di arte, che deve essere destabilizzante e irreprensibile. Voglio vivere a Voghera, inaspettatamente, ricevette migliaia di visualizzazioni su youtube e cominciò a passare in rotazione su Radio Deejay. Ma, da buono sprovveduto, non feci un soldo con quella canzone, gli autori dei programmi radiofonici me ne chiesero un altro paio simili e io, invece, rifiutai.
È ironico pensare come i cantautori che prendevo in giro allora siano quelli che ad oggi rimpiango. Ed è assurdo come, negli ultimi due anni, sia riuscito ad emergere persino qualcosa di peggiore. Mi sento completamente estraneo da quel mondo, non sarei più in grado di scrivere una Voghera del 2017, non sarei nemmeno più in grado di fare una parodia dei nuovi interpreti. Forse ormai ho raggiunto i 30 anni e sono invecchiato, forse è tutta una questione di età.
Adesso proponi un format musicale molto internazionale. Ho visto che hai ottenuto ottime recensioni dall’estero, “la sindrome di Voghera” è proprio ciò che non ti ha fatto apprezzare adeguatamente in Italia? In Inghilterra, forse, a quest’ora saresti stato una specie di Pete Doherty.
È proprio così. Invece dall’Inghilterra ho ricevuto un’attenzione del tutto inaspettata. È comparsa la recensione del mio disco su un sito britannico e da lì a ruota l’hanno seguito un’altra trentina di testate. Tutto questo senza un ufficio stampa. Non so se sarei mai riuscito a costruirmi una fama del genere, ma certamente in Inghilterra sarei riuscito a costruirmi una carriera sensata.
Che poi forse mi sarebbe bastato avere un’autonomia economica sufficiente. Al giorno d’oggi, chi fa musica con successo ha una famiglia alle spalle che può permettersi di mantenerlo fino ai 30 anni. Chi emerge è la gente che non lavora, che può dedicare l’intera giornata alla musica. Potrei curare 4 progetti musicali: il mio, uno super paraculo, uno super sperimentale e un altro folle. Ma non puoi tornare a casa dopo 8 ore di lavoro e avere le forze e la lucidità necessaria per comporre della musica. Le condizioni per fare successo in Italia sono queste: scrivere per un pubblico di diciottenni ed essere borghesi. La situazione musicale italiana, in sostanza, è dominata da una tardo-borghesia adolescenziale.
Oltre alla musica, un altro elemento che colpisce molto del tuo personaggio è l’impatto visivo glam e un po’ decadente. In un progetto musicale a tutto tondo, è necessario curare anche quest’aspetto estetico?
Volevo andare contro qualsiasi canone vigente nella musica italiana contemporanea afflitta da una spessa coltre di grigiume non sono nelle sue canzoni ma anche nell’immagine. Così anche la consapevole scelta di un look appariscente, sfavillante, finisce per diventare una mossa polemica, di rottura. La mia è una scelta rischiosa anche dal punto di vista meramente estetico. Potrò rischiare di stare sul cazzo a qualcuno e, sicuramente, ci sarà qualcun altro che mi darà del coglione. Ma io detesto questa idea che ci si debba riconoscere nell’artista. Io non voglio che la gente si riconosca in me, anzitutto perché non gli conviene. Io voglio che la gente appenda il mio poster in camera e dica “ voglio essere come lui” non “ lui è come me”. Ed è per questo che suono nudo coperto solamente da una pelliccia.
Sul piano della produzione musicale, sembra che con “Phoney Music Entertaiment” ci sia stato un netto passo avanti rispetto a “More Lovely And More Temperate”. In cosa è differente, a tuo avviso, quest’album rispetto al precedente?
Ho registrato entrambi gli album completamente da solo, in casa. Le batterie, i fiati, insomma gli strumenti che facevano più casino di PME sono stati registrati in studio. Nel mio ultimo lavoro però c’è stato l’intervento fondamentale di Ivan Rossi, un produttore bravissimo, che ha curato il mastering di sei canzoni dell’album. Il miglioramento è stato evidente, avevo assolutamente bisogno della mano di un professionista. Io non sono un tecnico, io sono un musicista, ho delle idee e gli so dare una forma. Ma per compiere questo salto di qualità il contributo di Ivan è stato fondamentale. Certamente, quest’album si distingue dal precedente per un’attitudine meno casalinga e una rimasterizzazione professionale.
Però lo spirito DIY rimane comunque una componente fondamentale della tua musica no?
Bah, ad essere sincero, no. Cioè, se qualcuno investisse 30mila euro nel mio album, sarei felice di avere un produttore, di circondarmi da assistenti e turnisti in studio. Ma, essendo l’unico a investirci, ho dovuto fare di questa componente un punto di forza. Ed è un investimento oneroso non soltanto in termini economici. Ho dovuto registrare l’album la notte, nei fine settimana, in vacanza… Un costo in termini di fatica elevatissimo e un budget estremamente limitato.
Ma essere “indie”, al giorno d’oggi, non vuol dire proprio approcciarsi alla musica nella stessa maniera in cui ti poni tu? Il giudizio della critica nei tuoi confronti sembra unanime. Secondo te, per fare buona musica, generalmente, bisogna relegarsi a una fetta di pubblico più piccola?
Forse in Italia. La grande contraddizione è che molta gente mi dice spesso che compongo musica troppo difficile, le stesse persone che poi ritrovo a spendere 70 euro per un concerto dei Muse o dei Radiohead che fanno musica molto più complicata della mia. Al di là del fatto che possano piacermi o meno, gruppi come i Radiohead non potrebbero mai nascere in Italia, suonano troppo perfettamente. Se i Radiohead fossero stati italiani sarebbero stati costretti a diventare scarsi.
Immagino che – ed è un discorso che credo possa valere per qualsiasi altro artista – anche il tuo ultimo lavoro sia stato influenzato da altri album e autori. E non sto parlando per forza di un’ispirazione diretta, insomma, cosa hai ascoltato ultimamente?
Certamente, anzi, forse proprio a causa dei miei disparatissimi ascolti poi finisco per esagerare nelle canzoni. Però non saprei risponderti con precisione. Diciamo che quando mi si pone la domanda “che musica ti piace?” io rispondo sempre: la musica bella. Ho un grosso problema con la musica brutta. Non saprei dirti cosa ha realmente influenzato l’album ma sicuramente negli ultimi tempi ho ascoltato molta musica sudamericana. PME contiene Samba da Segunda-Feira che è una specie di samba post-industriale, un mio tentativo di tributo alla musica brasiliana ed, in particolare, a Chico Buarque, uno dei miei autori preferiti insieme ai Beatles. Gli ascolti sono disparatissimi e non tutti presenti nell’album, ascolto tantissima musica classica, David Bowie, il prog degli anni ’70, il punk, ma anche moltissimo pop. Ecco, gli ultimi due dischi che ho sottomano sono Phil Elverum e Charles Mingus che non condividono nulla.
E di italiano, a parte Battiato, non ti piace veramente nulla?
Battiato è certamente uno dei miei punti di riferimento. Ma io in realtà adoro la musica italiana – ad esempio trovo interessantissima la musica tradizionale napoletana – il mio problema sussiste con la musica italiana moderna. Se mi chiedi di nominarti gli album più belli degli ultimi vent’anni arriverò malapena a sei. Nei confronti della scena italiana post-anni ’10, in particolare, mi sento veramente un alieno.
E di questo spopolare del rap cosa pensi?
Non saprei neanche risponderti con precisione. Gli italiani che fanno rap mi sembrano un po’ pigmei che costruiscono un igloo. Ma quel poco che ho potuto ascoltare ultimamente mi è sembrato veramente becero, sia a livello sonoro che compositivo-testuale. C’è un artista veramente complesso che rispetto moltissimo: Murubutu. Mi piacevano anche gli Uochi Toki, ma capisci che è tutta gente fuori dai classici stilemi del rap. Siamo tornati all’epoca della musica giovanile. Per molti anni la fascia d’acquisto della musica non ha più corrisposto a quella che va dai 14 ai 22 anni, adesso, invece, lo è di nuovo. Ma, negli anni ’60-’70, la musica giovanile – grande traino del mercato discografico – aveva una componente idiosincratica forte. Ora, invece, è espressa da queste due macrocatgorie del rap – i cui orizzonti estetici spesso non vanno oltre alla figura del birbantello di quartiere – e questo nuovo cantautorato ironico, ma totalmente amorale. Che si fa beffa della politica nell’arte. Ecco, dovremmo tornare ad una musica politica, il mio è un disco politico, in quanto disco polemico.
Uno dei termini che usi maggiormente per descrivere la tua musica è “pastiche”. Ribaltare gli stereotipi delle suddivisioni di genere musicale penso sia uno dei tuoi obiettivi artistici. Non credi che sia proprio questo componente a rendere ostica la tua musica? E se dovessi definirla in qualche modo, come la definiresti?
Io non ho una definizione migliore, lascio che siate voi a trovarla. Certamente pastiche è un termine ricorrente perché è emblematico di tutto il senso del discorso. In un momento storico in cui abbiamo perso le coordinate mi sento totalmente giustificato in questo scherzetto post-moderno della fusione di 5\6 registri musicali diversi in un’unica canzone. E in fondo come vorresti definire un componimento del genere se non come un pastiche? Il problema fondamentale è che il pubblico non è abituato a chi osa – in questo caso non mi riferisco esclusivamente all’Italia – è un problema che affligge le masse. Noi ci illudiamo che la democratizzazione sia una cosa positiva ma invece non è così. Io sono una persona fortemente “elettivista”, non credo nella forza intellettuale e culturale delle masse. Io credo che la musica e l’arte siano una forma di aristocrazia. Io voglio Felix Mendelssohn, voglio la musica che mi parla dall’alto… Non voglio il musicista che mi racconta quanto sia stressante finire il dentifricio. Perché l’arte non fa questo, l’arte non ha mai fatto questo. L’arte non rassicura, la mia non è musica rassicurante. Vorrei fosse ben chiaro il concetto: voi siete delle merde, io sono un grande artista.