Vinicio Capossela: di terra, di tenebre, di tradizioni


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di Antonio Zarrelli

Una settimana fa il tour europeo di Vinicio Capossela ha fatto tappa all’O2 Shepherd’s Bush Empire di Londra, in collaborazione con Tij Events. Ormai il concerto di Capossela è per me un appuntamento quasi fisso. La prima volta era il 2003, credo. Ero al Carnevale di Venezia, e lui stava perfettamente a suo agio, con una maschera e un cappello a tema. A quei tempi, Capossela iniziava a insinuare il dubbio dentro di me, a intaccare le mie certezze.  Ancora non riuscivo ad accostare nessuno a De André e De Gregori, eppure “Canzoni a manovella” era diventato il mio pane quotidiano. E così capitò che a quella che oggi è mia moglie, quando iniziai un po’ a flirtare con lei, dedicai La marcia del Camposanto. Mi rifeci poi, facendo di Con una Rosa la nostra canzone ufficiale, se così si può dire. Le serate con Il ballo di San Vito e Che cos’è l’amor hanno segnato la mia vita. Ma questa è un’altra storia. Tutto ciò mi è tornato in mente alla fine della sua esibizione la settimana scorsa quando una persona mi ha chiesto: “alla fine che genere fa Capossela, secondo te?”.

 

Come suo solito, Vinicio (mi permetto di chiamarlo per nome) è salito con i suoi musicanti sul palco e ha offerto uno spettacolo di musica e teatro, di terre e di mari, di notti e di lune, di tradizione e balli sfrenati. Un concerto che è partito di notte, con la voce profonda e l’intimità del pianoforte, un accenno alla tradizione di Halloween. In fondo, in “Canzoni della Cupa” e in tutta la sua carriera, Vinicio ha sempre fatto riferimento alle tenebre, più vicine di quello che si può pensare alle nostre tradizioni che a quelle anglosassoni, checché ne dicano i detrattori di Halloween. E si è finiti in crescendo, tra le canzoni più popolari, i balli di San Vito e il pubblico che si alza dalle proprie poltrone nel tentativo di trovarsi in piazza in una fresca sera d’estate a ballare al ritmo di una taranta.

 

Ritornando alla domanda, mi sono reso conto in quel momento che non mi ero mai soffermato a pensare alla categoria in cui inserire Vinicio. Sicuramente è un esponente del cantautorato italiano – lì lo possiamo classificare senza rischiare di essere smentiti – ma ho provato a immaginare anche a qualche sottogenere: canzone impegnata, politica, tradizionalpopolare, musical, poesia in note e così via. Poi mi sono detto, va bene Vinicio è pop, un pop alternativo forse. Chi più di lui, in fondo, ha raccontato la tradizione popolare, partendo proprio dall’ultimo “Canzoni della Cupa” fino al libro Il paese dei Coppoloni e lo Sponz Fest?  Eppure, neanche il pop mi è bastato, perché Vinicio è anche pop a suo modo, ma non solo, c’è qualcosa di più. Così, pensando e ripensando, sono arrivato alla mia conclusione: Vinicio suona il genere della “Terra”.

La terra è il sottile filo conduttore di quello che ci racconta, anche quando parla di mari, profeti e balene. La terra dove attraccano i marinai, la terra che trovi quando vai giù nelle viscere del mare e arrivi ai fondali, la polvere di un deserto americano, la terra del sud, l’uva, il vino, le danze. La terra delle tradizioni popolari e religiose, dell’aratro e dei contadini. E proprio perché ha i suoi piedi, fermi o danzanti che sia, su quella terra che ha sempre calpestato, il suo porto sicuro,  forse mi spiego anche l’apparente mutevolezza del suo carattere. Schivo e quasi timido quando uno gli fa una domanda o gli chiede una foto, intimo e quasi distaccato col pianoforte su un palco a teatro e trascinatore di folle in piazza, magari con una maschera, un cappello o anche una bacchetta da direttore d’orchestra, proprio come quella notte di Carnevale a Venezia.

Terra arsa e rossa Terra di sud, terra di sud Terra di confine Terra di dove finisce la terra