Recensioni Fuori Tempo Massimo: Bob Dylan – “The Freewheelin’ Bob Dylan”


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di Alvise Danesin

Ogni volta che ascolto questo album nella mia testa si materializza un ragazzo di vent’anni glabro, smilzo e spettinato. Indossa un paio di jeans e una camicia e, al freddo del suo nuovo appartamento in Greenwich Village, New York, comincia a strimpellare qualche accordo cercando di emulare i suoi idoli, tra tutti Woody Guthrie.

È l’inizio degli anni ‘60. Fuori il cielo è grigio e a ogni angolo della città si parla sempre più di guerra, di armi e di razzismo. Il mondo piano piano comincia a mostrarsi nelle sue vere sembianze: spietato, ingiusto, distaccato. Immagino sempre che questo ragazzo, triste per la partenza della sua ragazza, abbia una voglia irrefrenabile di dire la sua attraverso la musica. Sa che può farlo. Ha le conoscenze e i mezzi. Così prende un quaderno e, mentre guarda dalla finestra le strade della città ricoperte di neve, comincia a scrivere.


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Da quei fogli nasceranno brani di una potenza disarmante. In primo piano per tutto l’album, e forse per tutta la sua carriera, ci sono quei testi che spianeranno la strada alla scrittura musicale delle generazioni successive unendo il flusso di coscienza allo stile imaginista, il quale prevede un linguaggio poetico conciso e chiaro. Così si passa da Blowin’ in the Wind, pura poesia di protesta e pacifismo, alla ballata d’amore nostalgico Girl From the North Country dove l’armonica nel finale tenta letteralmente di entrarti dentro. In Master of War Dylan denuncia apertamente i signori della guerra sulla melodia medievale Nottamun Town: “You that never done nothin’/ But build to destroy/ You play with my world/ Like it’s your little toy”.

A ispirare uno dei pezzi capolavoro di questo disco è un’ipotetica guerra atomica annunciata dalla crisi dei missili a Cuba: A Hard Rain’s A-Gonna Fall, nella quale Dylan evoca immagini tragiche e post-apocalittiche. Basterebbe il solo lato A per capire cosa avesse trovato John Hammond di così speciale in quel ragazzo del Minnesota da difenderlo a spada tratta dopo l’uscita poco fortunata del primo album. L’immagine che Dylan si cuce addosso è quella del cantante vagabondo con la chitarra in spalla e politicamente impegnato.

Nella seconda parte dell’album si trovano infatti canzoni come Oxford Town, in cui racconta del primo ragazzo di colore che osò iscriversi all’università del Mississipi nel 1962, o come Talkin’ World War III Blues, dove Dylan in maniera ironica spiega al dottore di aver sognato la terza guerra mondiale. Le tredici tracce sono una magnifica fusione tra folk e blues e tutte accompagnate da chitarra acustica e armonica, fatta eccezione per Corrina, Corrina dove Dylan viene affiancato da un gruppo elettrico.

Per qualcuno probabilmente sono già state utilizzate troppe parole per cercare di raccontare quello che un ragazzo poco più che ventenne riuscì a fare con una manciata di canzoni. Se si cerca in rete ci si può smarrire facilmente nella miriade di recensioni, elogi, citazioni e pagine di storia che riguardano questo artista o anche solo quest’album. Personalmente credo invece che per “The Freewheelin’” non ce ne saranno mai abbastanza. E non perché molte tracce divennero dei veri e propri inni nelle battaglie civili alla fine degli anni ‘60 e neanche perché fu il trampolino di lancio di un artista che dopo cinquantacinque anni continua a ricevere riconoscimenti, ma perché questo disco e queste tredici tracce continuano ad essere attuali nonostante il nuovo millennio e continuano a far sognare nonostante le “nuove” battaglie.

Bob Dylan scrisse poesie e le mise in musica. Nostro dovere è goderne e rendere il dovuto omaggio.