Recensioni fuori tempo massimo: Metallica – “Master of Puppets”


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di Giovanni Colaneri Ormai, al diciassettesimo anno dopo il termine del ventesimo secolo, ancora risentiamo dell’influenza della serie infinita dei suoi “decenni”, ognuno dei quali ritrova la propria identità nell’arte che è stata concepita di giorno in giorno, di anno in anno. Si appresta a svanire davanti ai miei occhi, assieme alla mia adolescenza, l’eco di quei brani esplosivi, farraginosi e quasi miracolosamente armoniosi che, nel penultimo di quei decenni, ha dato vita a una generazione di capelloni e di alcolizzati. Parliamo del thrash metal e dell’album che se ne fa portavoce, “Master Of Puppets”, di una band che ha ispirato una miriade di giovani fomentati con una chitarra e tanto tempo libero da dedicare alla musica.

Non nego di essere passato anch’io fra le mani di un numero imprecisato di band alla stregua di una canna in un gruppo di amici, alla ricerca di divertimento e di musica spaccabudella. Dopotutto, quale giovane musicista non avrebbe voluto essere un James Hetfield, martellando le corde della propria Explorer e facendo rimbombare in tutti gli angoli di uno stadio le note a mitragliatrice di Battery? Chi non avrebbe voluto essere un Kirk Hammet, danzando sulle corte della propria Flying V e dando vita ad assoli storici come quello di Damage Inc? Oppure chi non avrebbe voluto essere quel genio prematuramente scomparso che è stato Cliff Burton, che con il proprio Rickenbacker ha dato vita a capolavori come Orion o (Anesthesia) Pulling Teeth? Purtroppo, Lars Ulrich con il tempo ha avuto molti problemi e il tempo ne ha evidentemente avuti altrettanti con lui, ma questa è un’altra storia.

Registrato in Danimarca tra il 1985 e il 1986 e pubblicato nel 1986 dalla Elektra Records, “Master of Puppets” consacra quasi da subito i Metallica come mostri sacri del thrash metal, proprio come avevano tentato di fare gli album precedenti, ma con ben maggior efficacia. Battery, l’introduzione perfetta: un’elegante intro di chitarre acustiche precede uno sciame di colpi di un martello pneumatico (o plettrate, non si capisce bene) che, mano mano, ti scava nel cervello. A fartelo definitivamente esplodere, però, ci pensa l’assolo di Kirk Hammet convincendoti anche che… sì, ciò che senti è reale. Si narra, tra l’altro, che costui abbia preso lezioni di chitarra da Joe Satriani. Uno stronzo qualsiasi, no? La canzone termina con una cavalcata mostruosa di Lars Ulrich, un “nanetto” irlandese che, alle stregue di una mitragliatrice, è in grado di crivellarti di colpi il diaframma con solo due gambe e due grancasse.

Non sai ancora se saltare fino al soffitto o prendere a spallate la porta e arriva “Master Of Puppets” a risolvere i tuoi dubbi, prendendoti a calci nel diaframma e ordinandoti di cominciare a scuotere la testa come se non ci fosse un domani. Si alterna la genialità di James Hetfiled nel partorire riff tanto melodici quanto pesanti, all’abilità di Cliff Burton nell’ideare, sempre e costantemente, intermezzi che ti fanno sognare, mai lasciati a sé stessi da Kirk Hammet che interviene a gamba testa con uno degli assoli più famosi e belli della storia.

Come crawling faster

Obey your master

Your life burns faster

Obey your master

Forse il messaggio è troppo spesso ignorato, la dipendenza dagli stupefacenti, che si collega abilmente con le altre tematiche dell’album, come la pazzia, la guerra, i falsi dei.

Ormai pensi di aver sentito ciò che avevi bisogno di sentire e non ti aspetti che un’altra canzone possa sconvolgerti più di tanto, ma The thing that should not to be ti tira uno schiaffo e ti mette a sedere con il suo peso schiacciante, preparandoti anche mentalmente per la quieta e nobile grandezza di Welcome home (sanitarium), un insieme di splendide armonizzazioni e assoli poetici che culminano in un finale esplosivo e liberatorio, come fosse uno sfogo, qualcosa di necessario che si sentiva crescere sempre di più dall’interno. Disposable heroes, Leper messiah, due tasselli della vita umana, guerra e fede, che vengono trattati con quella critica violenta e incisiva che solo i riff dei Metallica possono esporre.

Nella testa di un quattordicenne, questo album può causare risvolti interessanti, portandoti a desiderare di correre su un palco per urlare al mondo che ci sei anche tu, o a desiderare di avere al tuo fianco qualcuno che condivida con te le lacrime e la pelle d’oca nell’ascoltare le note poetiche di Orion. Cliff Burton è forse stato il componente più importante per la cresciuta del gruppo nel corso delle prime pubblicazioni, un uomo geniale, creativo, originale. Non c’è modo di esprimere e descrivere il proprio genio se non attraverso la propria musica e lui l’aveva capito. Ciò che percepiamo quando viaggiamo attraverso gli otto splendidi minuti di Orion (non certo ignorata dalle abili mani degli altri componenti, che l’hanno corredata di soli tutt’altro che banali) è pura poesia, puro genio, sudore misto a passione e dedizione, percepiamo l’amore, la rabbia e il dolore, percepiamo la libertà, la ribellione. L’arte contenuta in questo brano è interamente strumentale ed è quasi pari al dolore che il mondo ha provato quando il suo creatore è deceduto in un incidente durante un tour in Svezia, lo stesso anno della pubblicazione del suo capolavoro.

Asciugandoci le lacrime, per un motivo o per un altro, possiamo essere deliziati dal brano che, meglio degli altri, esprime una rabbia malinconica e repressa, sia attraverso un’introduzione da fare invidia a tutte le altre dello stesso album, sia attraverso un intermezzo e un assolo che si concatenano abilmente. Damage inc incita alla ribellione, incita a non arrendersi, a non sottomettersi, certamente non uscendo dallo schema ricorrente dello “spaccare tutto”, che ormai odiamo amare.

Energico e riflessivo, malinconico e distruttivo, questo album mi ha scaraventato da un estremo all’altro del mio cervello e, attraverso armonie di arpeggi e riff che non ci si aspetta, mi ha portato a scoprire di cosa può davvero trattare la musica, anche attraverso testi il cui significato apparentemente non è affatto colto. Ma quando, spinto a indagare da una vocina dentro di me che era stregata da quello che io ancora non conoscevo, scoprii che si trattava di una critica all’uso di stupefacenti, dell’ignoranza della pazzia, di un soldato la cui vita non ha importanza, dei falsi dei che l’uomo ha creato, ho constatato dinnanzi a cosa mi trovassi. Crescere con questa musica nelle orecchie significa imparare a osservare il mondo con occhi diversi da quelli che ti ha dato la mamma, significa iniziare a sperimentare la libertà, significa gettare le basi per una conoscenza sempre più ampia della musica. Liberandosi dagli stereotipi, dalla mai svanita idea che un fan del metal sia “darkettone” o anche semplicemente “metallaro”, si può scoprire quanto i metallica e il loro genere abbiano da offrire.