di Alessandra Virginia Rossi
Ciò che è vintage non passa mai. No, non è il motto di una casa(ta) di moda, bensì una costatazione che ci porta a parlare di un nuovo interessantissimo trend che, negli ultimi anni, si fa strada nei videoclip musicali. Si tratta di un’estetica retró molto raffinata, tragicomica, al limite fra il grottesco e lo humor malinconico alla Buster Keaton. Moby, Editors e in tempi recenti Jay-Z, hanno scelto animazioni sbarazzine in stile twenties per parlare al mondo attuale e lanciare i messaggi più coscienziosi e impegnati della loro carriera.
Are You Lost In The World Like Me?, datato 2016, è l’ultima pubblicazione di Moby, in fatto di video. Estratto da un album dal titolo già eloquente “These Systems Are Failing”, intorno alla sua data di pubblicazione, questo videoclip ha invaso il web scimmiottando la tipica caption da clickbait “Dopo aver visto questo video non sarai più lo stesso!”. Come previsto però, eccoci qui, proprio come nella clip diretta dall’illustratore Steve Cutts, a renderci conto di tutto e a non riuscire a fare niente per cambiarlo. Strategia astuta ma fin troppo sottile per un video che, se visto superficialmente, rischia di essere retorico. La sua sensibilità in fatto di ambiente e pacifismo, infatti, è già costata a Moby la celebre parodia di Eminem nel video di Without Me, ma a mali estremi…
Anche gli Editors scelgono il vintage per lanciare una critica feroce al sistema malvagio, schiavistico ma che ha “del talento nelle sue bugie”. D’obbligo anche qui il bianco e nero e immancabile la catena di montaggio simbolo del consumismo e responsabile della peggiore omologazione. Tra i commenti e le interpretazioni dei fan si leggono riferimenti ad una “higher class” cospiratrice e teorie sui simboli massonici degli Illuminati nascosti qua e là nel video. Tutto drammaticamente plausibile e, come per Moby, il sipario si chiude su un mondo di devastazione e macerie.
Negli anni ’50 gli Stati Uniti sono stati teatro di una lotta estenuante per la conquista dei diritti degli afroamericani. La faccenda dell’odio razziale sembrava aver compiuto un passo in più verso l’archiviazione con la vittoria di Obama, ma i recenti fatti di Dallas, Houston e Charleston tra 2015 e 2016, hanno rivelato una verità dura a morire che Jay-Z, nell’ultimo pezzo The Story of O.J., sintetizza in qualche verso:
Light nigga, dark nigga, faux nigga, real nigga Rich nigga, poor nigga, house nigga, field nigga Still nigga, still nigga
“Skin is skin” ma, anche in questo caso, per quanto il mondo evolva certe cose non passano. Nel videoclip di Jay-Z industrie dell’odio sfornano adepti del Ku Klux Klan e gli afroamericani, quando non sono associati ai campi di cotone, compaiono nella loro sola isola felice (anch’essa stereotipo) i Jazz Club. Come gli Editors, anche Jay-Z sferra un diretto attacco al monopolio economico di un’élite americana, quella ebraica. Si condannano le discriminazioni, è vero, ma non si può certo chiedere all’hip hop di essere politicamente corretto.
Viene da chiedersi perché questi artisti hanno individuato nel passato lo scenario perfetto per raccontare fatti e sentimenti tanto duri e, soprattutto, perché per farlo hanno scelto l’animazione, da sempre associata alla leggerezza e all’intrattenimento per bambini. Il viaggio nel tempo è il modo più efficace per fare un immediato confronto col tempo in cui viviamo. La forza del cartoon, invece, si rivela nei suoi personaggi caricaturali e nelle loro forme goffe, infantili. Ridicolizzare i problemi sociali, cogliendo di sorpresa le aspettative di chi guarda, è l’unico modo per provocare l’impatto necessario e portare la nostra coscienza a domandarsi come sia possibile essere così ciechi, ingiusti, grotteschi, sempre più al limite della macchietta. That’s all folks!