Recensioni Fuori Tempo Massimo: Blur – “Blur”


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di Alvise Danesin

Ho ascoltato la prima volta “Blur” circa dieci anni fa. Avevo quattordici anni e ricordo quel periodo come uno dei più belli della mia adolescenza. Iniziavo a capire la vera essenza del rock e quindi a informarmi sulle band e gli artisti che dovevo assolutamente cominciare ad ascoltare. Quello era un universo pieno di cose e mi ci sarei potuto perdere, ma da qualche parte dovevo iniziare. Come spesso accade, furono alcuni compagni di scuola a passarmi l’intero catalogo di Classici Rock, rigorosamente scaricati illegalmente. Tra questi, ovviamente, anche l’intera discografia dei Blur. Quando venne il momento di scegliere quale album del quartetto inglese dovesse finire nel mio lettore mp3 (con 1Gb dovevo inevitabilmente rinunciare a qualcosa) la scelta fu ovvia:  quello di Song 2.


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Cominciai ad ascoltare “Blur” a ripetizione nel tragitto che mi portava a scuola, quasi fosse un rituale. Arrivavo in fermata, scioglievo i nodi dalle cuffiette, abbassavo lo sguardo per evitare di trovarmi costretto alle solite domande di circostanza degli altri ragazzi del quartiere e facevo partire la musica. Di solito il bus arrivava alla fine di Country Sad Ballad. Nella testa solo “Let me sleep all day”. Schiacciato sempre dagli stessi zaini, mi guardavo intorno, per cercare Lei. Quando la trovavo, la bella ragazza dell’ultimo anno seduta qualche metro più avanti, pensavo “We stick together/ Gone middle of the road”. Dopo i tre minuti e mezzo di M.O.R. tornavo alla realtà con On Your Own e alzavo il volume  ̶  “I dream to riot, oh, you should try it”  ̶   ogni fermata sempre di più. Le due tracce centrali, You’re So Great e Death Of The Party, sarebbero diventate le colonne sonore degli anni a venire. Intanto l’autobus continuava la sua corsa. Poi rallentava un’ultima volta e si fermava. Era ora di andare, lo facevo molto lentamente. Andavo verso quell’edificio triste e le tracce scorrevano una dopo l’altra senza fermarsi. “Movin on, we’re movin’ on/ Won’t be long before we’re gone”.

Lunatico, malinconico, nervoso. È un disco che, ascoltato a quell’età, ti salva la vita e ti accompagna fedelmente durante quei maledetti sbalzi d’umore che ti fanno odiare qualunque cosa. Quando lo riascolto ora, mi ritrovo lì con una certa nostalgia. Io scendo dal bus, la scuola in lontananza e il mio compagno di banco in fondo alla strada. Mi aspetta per entrare. Io penso: “Devo assolutamente passargli questo disco”.