di Antonio Zarrelli Proprio una settimana fa abbiamo avuto il piacere di ascoltare a Londra Birthh, alter ego, e progetto musicale allo stesso tempo, di Alice Bisi. Oltre a Birthh, Tij Events ha portato sul palco un altro talento, Echopark, di cui vi parleremo.
Non siamo certo noi a scoprire le capacità, la maturità, la consapevolezza di Birthh che, nonostante i suoi venti anni, sembra esserci sempre stata sul quel palco con i suoi strumenti. Della sua esibizione, che ha mantenuto tutte le aspettative, ci sono piaciuti anche la naturalezza dei suoi gesti e quei sorrisi che venivano fuori quando si concentrava sui suoi strumenti, chitarre o tastiere che fossero. In quei momenti, quasi intimi per Birthh, ma coinvolgenti allo stesso tempo per il pubblico, abbiamo forse compreso quello che ci aveva detto qualche giorno prima nell’intervista che di seguito vi proponiamo: la canzone ha un’anima. E se la canzone ha un’anima, allora Birthh è un tramite perfetto per farcela vedere e sentire quest’anima.
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T. Ciao Alice. Poco più di un anno fa usciva il tuo disco. E da lì hai iniziato un certo percorso che ormai tutti conoscono. Come si sente questa Birthh rispetto all’Alice pre-disco?
B. Come si sente? In realtà l’Alice prima del disco e quella dopo sono due persone diverse. Poi ce n’è una terza che è Birthh. È un po’ complicato, è una sorta di pseudonimo, di alter ego musicale, che di fatto è diventata un po’ me. Anche le cose che sto scrivendo adesso e il modo in cui mi pongo sul palco non sono troppo distanti da me stessa. Mi viene naturale fare così, dire le cose in modo chiaro ed essere onesta con le persone che mi ascoltano e mi stanno davanti. In un certo senso Birthh unisce un po’ quella che ero io prima di scrivere le canzoni, quando ancora era quasi un passatempo in cui scrivevo solo quando avevo qualcosa da dire, e quella che sono adesso. I tempi di scrittura erano lunghi. Oggi stare sul palco ed essere Birthh mi riporta a quella parte di me che ero io allora, da cui inevitabilmente adesso sono più distante. Si cresce, si cambia. Birthh è un modo per unire un po’ tutte le mie esperienze, raccontare la mia storia e rivivere le cose con occhi più maturi.
T. Cercando tra le tue esperienze, le tue influenze, il tuo cammino emerge una passione per tutta la musica in generale. Un forte apprezzamento per i cantautori del calibro per esempio di Vinicio Capossela o Tom Waits, o per pop star come Avril Lavigne, o addirittura il ricordo dei Pitura Freska. Di questa tua esperienza d’ascolto quanto c’è nel tuo album (“Born in the woods”),che comunque ha una sua forte personalità e uno stile non direttamente riconducibile a nessuno di quelli che ti ho detto.
B. (Ride). Non ricordavo di aver parlato con qualcuno dei Pitura Freska. Questi sono tutti ascolti dovuti a mio padre. Guarda che a volte la musica e l’ispirazione sono qualcosa di incredibile e magico. Qualsiasi cosa, un accenno, anche solo il fatto che una canzone ti faccia sentire in un certo modo e tu vuoi riproporre quel colpo allo stomaco, viene tutto da lì. Quando mi chiedono le mie influenze rispondo che ho sempre ascoltato musica, non ricordo una volta in cui non l’abbia ascoltata. E la musica ti genera emozioni, ti dà qualcosa che è la ricchezza che ti porti dietro indipendentemente dal fatto che poi magari sia più o meno vicina a quello che fai tu.
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T. Il tuo album è nato molto lentamente. Hai addirittura detto che è cresciuto con te, avendoci messo, tra una cosa e l’altra, tre anni per scriverlo. Solitamente quando si è molto giovani c’è quasi una fretta spasmodica di arrivare subito, di vedere il risultato finito. Tu ti eri posta degli obiettivi sin dall’inizio, o questi si sono manifestati strada facendo?
B. No, non avevo assolutamente obiettivi particolari all’inizio. Non mi sono mai sentita troppo all’altezza di fare questa cosa in modo professionale. Voglio dire, io sono una perfezionista nel vero senso della parola per quanto riguarda la musica, e non voglio fare uscire le cose finché non sono esattamente come vorrei che fossero. E, se ci penso, non avevo neanche gli strumenti materiali adatti i primi tempi. Ma, al di là di quello, a me nemmeno interessava di fare uscire le canzoni. Quando mi è venuto in mente di fare un disco avendo un tutti i pezzi da mettere insieme, l’ho fatto solo perché volevo suonare in giro. Prima ero riuscita a suonare in giro, più che altro date singole. E i locali spesso apprezzavano e mi dicevano che mi avrebbero anche aiutato a organizzare un tour una volta fatto un disco. Quindi la mia idea era solo di suonare. Poi a mano a mano che lavoravo sentivo la necessità di farlo al meglio. Ho avuto anche la fortuna di confrontarmi con un’etichetta (WWNBB Records) che mi ha dato gli strumenti veri, che non erano un laptop, una tastierino e una scheda audio da 100 euro. Mi trovavo in uno studio e con persone molto esperte con cui confrontarmi. Lì ho iniziato a capire un po’ meglio e anche l’asticella si è alzata.
T. A proposito di questo, immagino, nonostante gli impegni dell’ultimo anno, tu ti stia approcciando a un nuovo disco. Credi che oltre alle esigenze puramente artistiche, i tempi creativi dovranno ora andare di pari passo con quelli di produzione?
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