Afterhours: “Folfiri o Folfox” e la comprensione del dolore


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di Alessandra Virginia Rossi

Fra poco più di un mese “Folfiri o Folfox” compirà un anno e gli Afterhours sono consapevoli che il loro ultimo album è un’opera difficile. Lo è per il tema che tratta, per il percorso interiore che ti induce a compiere, per la complessità strumentale dei brani. Un album che non solo porta il nome di due regimi chemioterapici ma è anche un rimedio sicuro per le anime ferite. Lo è inaspettatamente ed è per questo che si rivela così efficace. Se si riesce ad abbandonarsi all’opera, l’effetto catartico è assicurato e “Folfiri o Folfox”, oltre a finire nella collezione dei dischi a cui più si è più affezionati, compie un gesto concreto e benefico nella vita di chi lo accoglie. Insegna il coraggio, la forza, perfino un’imprevedibile leggerezza e, dunque, la rinascita. Sentirsi compresi, in fondo, è la sensazione più bella del mondo.

Al telefono con Rodrigo D’Erasmo abbiamo parlato dell’esperienza di composizione, dei legami umani dietro lo splendido lavoro artistico della band e di spiritualità. Ci ha anche dato un importante punto di vista sull’attualità musicale italiana a cui segue un ottimo consiglio…

 

Con “Folfiri o Folfox” avete proposto qualcosa di estremamente delicato e rischioso. Manuel Agnelli si è espresso molto riguardo l’esperienza dolorosa che lo ha investito e voi componenti della band avete dichiarato di essere riusciti ad entrare in quella dimensione perché in fondo tutti abbiamo un dolore simile da portarci dietro. Non temevate di proporre al pubblico qualcosa di emotivamente difficile da elaborare?

Sicuramente sì e infatti siamo rimasti molto piacevolmente sorpresi dalla risposta del pubblico già quando uscì l’album, ormai quasi un anno fa. Incontrandolo abbiamo avuto modo di riscontrare che evidentemente c’era tanta gente che aveva bisogno di questo disco. Aveva bisogno di qualcuno che parlasse di questi lutti, di questi dolori, di queste perdite e che desse anche a loro la possibilità di sublimarle tramite qualcosa che dia forza, energia, che ti dia una motivazione. È stato molto bello incontrare queste persone e sentirsi dire che il disco aveva fatto loro del bene, è stata una soddisfazione enorme.

Quello della malattia e della separazione non è l’unico tema. Il mio popolo si fa attacca la superstizione di un popolo che non crede più nelle sue potenzialità concrete. Folfiri o Folfox invece è uno sfogo sull’impotenza che si prova nelle circostanze più dolorose della nostra vita. Infine Ti cambia il sapore e Il trucco non c’è affrontano, con sarcastico disincanto, la ricerca disperata di un dio. In cosa credono gli Afterhours?

Siamo una band di atei anche se in realtà, credo che la nostra sia una band con un alto tasso di spiritualità. È evidente da questo album, ma non è la prima circostanza nella storia degli After in cui questo salta fuori  e non credo riguardi solo Manuel nonostante sia lui a scrivere i testi. Ognuno di noi ha un proprio modo di viverla, un proprio modo di ricercarla ma credo che per ognuno sia un tasto comune di ricerca, un tasto importante acceso nella vita di ciascuno. Io vengo da una famiglia religiosa che mi ha educato molto ai valori della fede e meno alle figure che questa fede dovrebbero professarla. Questo mi ha aiutato molto a viverla in maniera meno impositiva e me ne sono allontanato in maniera naturale con il giusto disincanto mantenendo dei valori di spiritualità abbastanza profondi. Credo che la cosa più grande che mi abbiano insegnato sia il rispetto per il prossimo. Credo molto negli esseri umani ecco, non sono un cinico da questo punto di vista. Ci credo molto e penso che siano capaci di essere, sia da un punto di vista intellettuale che di sentimento e di relazione, delle creature incredibili così come di essere delle schifezze abominevoli. Però ci credo molto e continuo a crederci.


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A proposito della sua forza catartica ho percepito l’album come un percorso duro ma equilibrato. Si parte con Grande in cui ci troviamo bambini di sei anni che si illudono di poter non soffrire mai la separazione dai genitori. Poi si passa per momenti di sconforto, di rabbia, di fiducia ritrovata come capita in Oggi. In chiusura la sensazione molto liberatoria trasmessa da Se io fossi il giudice sembra completi il percorso di superamento del lutto, per quanto possibile, e perché no di maturazione. È un’interpretazione esatta?

È un’ottima lettura ed è assolutamente così, hai colto nel segno. Posso aggiungere soltanto che “Grande”, il brano di apertura, oltre a dare un La cronologico nella vita di ognuno di noi, l’abbiamo scelto anche per la forza evocativa del canto. Quell’esplosione vocale volevamo proprio che fosse una chiamata alle armi anche in maniera di energia, di partenza. Una sorta di scossa, uno schiaffo in faccia per risvegliare le menti dal torpore che un pochino in questo periodo ci spegne e ci inchioda al divano e al computer.

“Folfiri o Folfox” aveva bisogno di una complessità strumentale che rappresentasse gli stati d’animo più vari legati a temi così intensi. Tu sei compositore e autore di molti brani dell’album. Come hai proceduto nel lavoro?

È partito tutto da una prima fase di ascolti e di scrittura a quattro mani, mia e di Manuel, in cui ci siamo confrontati con materiali che stavamo scrivendo in quel periodo o cose che avevamo nei cassetti più o meno a breve periodo e anche più lontane. Ad esempio Lasciati ingannare è un mio brano di tanto tempo addietro. Lo scrissi quando vivevo a Ferrara, quindi quattro o cinque anni fa. Era un brano strumentale che era rimasto lì in una forma abbastanza simile a quella che poi è uscita. Mancava la ritmica e ovviamente la melodia del brano di Manuel, però era abbastanza vicina al risultato finale. Diciamo che in generale c’erano delle cose preesistenti, delle cose scritte ad hoc, altre scritte insieme dopo. In tutto ciò c’è stato, anche sui miei brani, un enorme lavoro di Manuel da produttore vero e proprio come è sempre stato in tutti gli album degli Afterhours. L’orizzonte lo vede lui, come se avesse già preimpostata una visione che lo porta a concepire l’album nella sua interezza nonostante le canzoni all’inizio neanche esistano. Questo è molto stimolante, oltre che affascinante, nel lavoro di squadra. Per cui in realtà io mi sono trovato a buttare come un fiume in piena tutto quello che mi veniva in quel momento. Devo dire che è stato un periodo molto fertile tant’è che è rimasto anche tanto materiale che non è detto non torni utile. Dopo questa prima fase di lavoro a quattro mani, poi, pian piano abbiamo iniziato ad innestare le idee degli altri. Ci sono stati anche brani nati in maniera differente con loro però la spina dorsale dell’album è nata così. Fabio Rondanini è stato fondamentale per dare una colonna vertebrale al disco dal punto di vista ritmico e per farci capire, visto che era il primo che facevamo insieme, dove potevamo spingerci con lui. Poi sia a distanza perché Stefano Pilia è a Bologna e Fabio a Roma, ma anche vedendoci e cominciando a incontrarci sempre più spesso abbiamo fatto un lavoro di composizione per strati. In qualche maniera è stato come se avessi scritto una partitura che poi è stato non semplice, perché alcuni brani sono molto complicati, ma naturale riproporre dal vivo. I brani infatti, per chi ha avuto modo di vedere un concerto, sono stati riproposti in maniera abbastanza fedele a come sono nell’album.


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Il binomio artistico composto da te e Manuel si è fatto notare anche in progetti paralleli pop come X Factor e nelle varie partecipazioni televisive e radiofoniche degli ultimi tempi. C’è anche un legame umano forte tra voi. Questo aiuta nella buona riuscita di un lavoro artistico?

Decisamente. Adesso è un rapporto a 360°, siamo molti amici e questo rende più semplice anche il fatto di collaborare così tanto perché non lavoriamo solo sugli After ma appunto su X Factor e tanti progetti collaterali. Siamo a strettissimo contatto e lavoriamo spalla a spalla praticamente tutto l’anno. Chiaramente questo ha fatto sì che negli ultimi anni si intensificasse anche il rapporto personale. Mi ricordo però, che dal principio, quando entrai ci siamo piaciuti da subito. L’intesa vera e propria è cresciuta col tempo, così come la stima. Manuel mi ha lasciato uno spazio enorme capendo le potenzialità o almeno fiutandole dal principio e io, che non me lo faccio ripetere due volte, i miei spazi me li sono presi. Ho cercato di dare il massimo che potevo al progetto e questo ha fatto sì che cominciassimo a frequentarci sempre di più prima per ragioni professionali finché poi abbiamo capito di trovarci molto bene anche umanamente. Se la domanda è virata a capire se, ad esempio, facciamo anche le vacanze insieme, sì!  Le facciamo insieme. Poi a piccoli periodi capita anche di non volerci vedere per un po’, per rinfrescare il tutto come nella tradizione delle migliori coppie! Però, scherzi a parte, andiamo veramente molto d’accordo e adesso insomma diciamo da tre o quattro anni c’è anche un rapporto molto intenso.

Parlando invece del tuo percorso personale, una delle collaborazioni che apprezzo di più è quella con Cesare Basile che poi ti ha anche portato agli Afterhours. Ora che l’italiano è una lingua di composizione molto sdoganata, mentre ai tempi degli esordi degli After si preferiva l’inglese, la forma dialettale, dal tuo punto di vista, potrà mai avere una sua rivelazione anche sui grandi numeri o rimane più territoriale e circoscritta?

Secondo me un potenziale c’è. Sono stato molto a contatto, negli anni ’90, con progetti come Almamegretta, la CNI (Compagnia Nuove Indye) che hanno dato una svolta nell’uso del dialetto. All’epoca la matrice fondamentale era il reggae e il dub. C’erano anche altre band sparse in giro per l’italia che praticavano questo dai Lou Dalfin che cantavano in Occitano fino all’estremo sud per arrivare ad altri artisti come Enzo Avitabile che ha avuto un successo anche internazionale. Secondo me un grosso potenziale del dialetto sui grandi numeri non c’è. C’è sul discorso internazionale. È interessante il fatto che possa rientrare in un ambito di world music che non vuol dire necessariamente solo folk music ma anche musica etnica in senso più ampio. Già solo l’idea che utilizzando il dialetto si possa avere un respiro diverso è affascinante. Un po’ come in qualunque paese d’Europa si ascolta la musica dei Tinariwen senza capire una parola, non vedo perché non si possa ascoltare un disco di Cesare Basile che ha tutta la Sicilia dentro, quindi le tradizioni, la popolarità di un suono ancestrale insieme alla musica africana. Perché la musica di Cesare ha anche tante influenze africane e si esprime in una lingua anch’essa ancestrale che è altrettanto importante recuperare e che ha, proprio a livello linguistico, una musicalità originale. Quindi secondo me sul piano internazionale c’è un forte potenziale. È una cosa di cui con Cesare parliamo da qualche anno perché secondo me dovrebbe assolutamente spingersi più oltreoceano che qui.

Sembra che le idee migliori debbano sempre migrare un po’ più lontano per essere apprezzate. Gettare uno sguardo alla situazione culturale italiana poi non rassicura. Vivendo molto sia Milano che Roma, dov’è che trovi più cultura musicale e qual è la città che attualmente offre di più?

Non parlerei tanto di cultura musicale quanto di strutture, di proposta, sia da parte dei club che dalla giunta, il comune ecc. In questo momento Roma è abbastanza disastrata. Non c’è nessun supporto alle poche realtà che sono sopravvissute. La maggioranza ha subito un giro di vite abbastanza pesante in termini di regolamentazione se non addirittura di sgomberi per ciò che riguarda spazi liberati e occupati che, a mio avviso, sono i pochi in cui si crea libera cultura per davvero. C’è qualche club che tiene botta con grande difficoltà. Cito il Monk che ha una bella programmazione perché c’è dietro una persona che ha vent’anni di storia e prima lavorava al Circolo degli Artisti, che è Raniero Pizza. E con lui altri che sanno fare quel mestiere, sanno individuare quale linea editoriale dare a un locale. Questo è molto importante altrimenti diventano dei contenitori in cui passa un po’ di tutto e confondono anche molto la gente che non sa più dove andare perché ci trova un giorno una cosa e un giorno un’altra. In questo, Milano è in un periodo un pochino più felice nonostante abbia perso anche lei dei posti importanti. Mi viene in mente la Casa 139 che era uno spazio a cui eravamo molto legati noi e che è stata proprio una sorta di fucina, di laboratorio intorno al quale sono nati molti. Adesso ci sono altri esperimenti molto belli nati da ragazzi giovani, come quello della Santeria Social Club che dall’esperienza del Magnolia si è ampliato e propone workshop, showcase, presentazioni di libri. Se su Milano la situazione è un po’ più viva, su Roma bisognerebbe veramente dare una mano ai pochi che continuano a far cultura dal basso. Primo fra tutti cito l’Angelo Mai perché è casa mia. Sono uno dei primi occupanti dell’Angelo dalla prima sede di Rione Monti di Via degli Zingari quindi per me rimane veramente la mia casa e la mia famiglia. Credo che ancora adesso sia uno spazio importantissimo che andrebbe tutelato molto più di quanto venga fatto. Al di là di quelli a cui si è legati però, i luoghi di aggregazione sono fondamentali. Sono tanti gli spazi attorno ai quali la gente di Roma si dovrebbe stringere perché persi quelli si perde l’identità della comunità.

Gli Afterhours sono attualmente impegnati nel Tour Europeo per poi tornare in Italia per l’estate col #30 Summer Tour. Date in aggiornamento!


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