di Gabriele Naddeofoto diLuca Viola
Ore 20:40
Boschi di braccia tese con lo smartphone aspettano con avidità l’arrivo del rapper sul palco. A scaldare il pubblico del The Garage ci ha già pensato il soul dei Retrospective for Love, progetto parallelo di Davide Shorty, ma è con il dj set pre-concerto che le seicento anime del club londinese cominciano felicemente a perdere il controllo. Qualcuno sventola bandiera sarda, molti muovono il culo a tempo, tutti sanno il nome e lo gridano con forza. Poi all’improvviso la visiera di un cappellino nero fa capolino dal backstage. Salmo è in scena: benvenuti all’inferno.
*Flashback*
Ore 18:30
Sul divanetto rosso di pelle del camerino del The Garage c’è l’autore dell’album rap più venduto del 2016.
Talassa: “In cinque su un Volkswagen dell’84 verso Londra”…Perché la decisione di venire qui nel 2007? Mi racconti la tua esperienza con questa città?
Salmo: Anni fa suonavo con una band, gli Skasico, anche se non è stata la mia prima esperienza con la musica. Molti pensano che ho cominciato con il metal o il punk, in realtà le primissime cose che ho fatto erano hip hop: non esisteva nient’altro per me. Però abitando in una città dove eravamo tipo in quattro o cinque a fare hip hop – in Sardegna c’era una bella scena a Cagliari, però a Olbia, dalle mie parti, proprio zero – per forza di cose ho iniziato a entrare dentro le salette, a suonare con le band, a imparare a usare gli strumenti eccetera. Quindi abbiamo formato la prima band, era intorno al 2000, e facevamo crossover. Dopo aver pubblicato tre dischi, avevamo deciso di rincorrere questo sogno: mollare tutto, cambiare vita e provare a fare musica qui in Inghilterra. Siamo partiti da Olbia con il furgone e siamo arrivati a Londra passando da Rotterdam, dopo aver girato più o meno mezza Europa.
In che zona di Londra vivevate?
Abbiamo girato un po’ di zone, inizialmente dormivamo dentro al furgone, solo che faceva troppo freddo. Poi abbiamo trovato degli ostelli. Appena siamo arrivati abbiamo dovuto mettere da parte la musica, dovevamo prima organizzarci per bene. Ho fatto tutti i lavori possibili: dal lavapiatti all’uomo cartello o le consegne in motorino di cibo giapponese… Ho lavorato anche sotto il London Eye. All’inizio era impossibile dedicarsi alla musica: dovevamo lavorare 13, 14 ore al giorno. Quando tornavamo a casa ci facevamo una canna ed eravamo finiti.
Ogni tanto riuscivate ad ascoltare un po’ di musica dal vivo?
Spesso andavamo nei club e locali in giro per la città: in quel periodo c’era molta breakbeat e drum and bass…
…e la grime?
La grime c’era, ma non si capiva bene: sentivo parlare di breakbeat e drum and bass, ma la parola “grime” non veniva mai pronunciata, anche se si vedevano i rapper che cantavano sull’elettronica. In generale, comunque, non riuscivo a dedicarmi molto alla musica: lavoravo quasi tutto il tempo. A un certo punto ho capito che Londra ti schiaccia al suo volere. La band, tra l’altro, non c’era più perché il batterista era andato via. Allora sono tornato a casa, con un bel bagaglio culturale sulle spalle. Proprio da questa situazione è uscito fuori il primo disco, “The Island Chainsaw Massacre”: da lì è andato tutto in salita.
“Ora tutti sanno il nome”, insomma. La scelta di non mettere né l’autore né il titolo dell’album sulla cover di “Hellvisback” c’entra con questo concetto?
No, quella è stata una cosa azzardata: la provocazione fa parte del mio carattere, ecco perché la mia musica è molto provocatoria. Volevo infilarmi nel mercato italiano con il primo disco con major – “Hellvisback” è uscito con Sony – con una sorta di suicidio discografico. Mettere nel mercato un disco senza la tua faccia, senza il nome e senza il titolo era una sfida. I ragazzi della Sony cercavano di farmi cambiare idea, ma niente, avevo preso la mia decisione. Alla fine è andata una bomba.
Questa volontà di “sparire” dalla cover dell’album mi fa pensare a una cosa che hai detto in un’intervista a Red Bull. Dicevi che adesso per te è difficile fermarti, anche solo per un breve periodo. Anche ora che tutti sanno il nome?
Attualmente non puoi sparire: c’è una tale frenesia nel consumo che potresti rischiare di essere messo da parte. In Italia il rap è il genere più diffuso, anche più del pop. Ora c’è anche un cambio generazionale, si sono aggiunti altri rapper, la musica si sta evolvendo. Quindi se tu decidi di fermarti, se non ti riproponi, se non ti reinventi è probabile che vai a morire. Devi stare sempre sul pezzo, essere produttivo, anche perché i giovani, i giovanissimi, i ragazzini vogliono vivere il momento. Vogliono sentirsi parte di qualcosa che stanno vivendo in quel preciso attimo. Però c’è il contro: devi essere veramente un genio per riuscire a fare un disco all’anno ed essere sempre credibile. La parola chiave allora è il tempo: hai bisogno di tempo, per capire gli input che ti entrano, per capire la musica.
Prima quando spuntava una moda nel mondo della musica ci volevano 10, 20 anni prima che arrivasse in Italia, intanto quel genere si era formato, era maturo. Ora, se dall’altra parte del mondo esplode una moda, noi qua il giorno dopo la stiamo già seguendo. E quindi cos’è che manca? Il tempo, il tempo per metabolizzare, fare esperienze e riprodurre la musica. Tu in un anno che esperienza puoi fare? Perciò sono due le cose: o ti fai scrivere le robe dagli altri – ma non lo farei mai – o non ti fermi neanche per un secondo. Però quando siamo in tour io non riesco a scrivere perché sono concentrato sui live, quindi è un po’ una sorte di fregatura, è un po’ una gabbia.
A proposito di rap e pop: il rap è da sempre pieno zeppo di citazioni, ultimamente, però, anche il pop ne sta facendo un uso massiccio. Mario Fillioley ha scritto un articolo molto interessante al riguardo, ragionando sull’uso delle citazioni in Occidentali’s Karma di Gabbani o sul “faccio cose, vedo gente” cantato da uno youtuber italiano che chiamerò con il nome fittizio di “Gigi”…
(Ride) Il rap e il pop, soprattutto in Italia, sono i generi che vanno di più e si stanno contagiando sempre più spesso l’uno con l’altro. Penso anche ai nuovi cantautori italiani: Calcutta, Motta, I Cani, i Thegiornalisti…Non hanno un genere ben definito, è tutto un miscuglio: magari a molti di loro il rap piace e quindi in qualche modo ne vengono influenzati. Calcutta poi è particolare: ha un modo di scrivere interessante che, non lo so, lo fa sembrare una sorta di rapper mancato. Sull’uso frequente delle citazioni nel pop non saprei dirti, ma in ogni caso molto spesso non sono gli artisti a sceglierle, dato che non scrivono loro i testi. Come quello che hai citato tu, “Gigi”: le canzoni non sono le sue, non le scrive lui.
L’ultima: “Midnite” era un disco più conscious, “Hellvisback” è più suonato, più da live…il prossimo? Un visual album, considerato che i video sono il tuo forte?
(Ride) Eh beh, potrei fare un po’ tutte queste cose! Non lo so, ho notato che ogni mio album è sempre molto diverso dall’altro. Anche dentro ogni singolo disco non ci sono quasi mai pezzi simili. Se qualcuno dovesse dirmi che faccio tutte le canzoni uguali gli sputerei in faccia, roba che non ci dormirei la notte! La mia idea è che quando ascolti un album ogni singola canzone deve colpirti. Quindi se per il prossimo disco mi dovesse uscire una roba uguale a Hellvisback non lo faccio uscire. Deve essere sempre qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, ho sempre questo pallino qua. Vedi Yeezus di Kanye West…
O l’ultimo di Kendrick Lamar…
Esatto. Tutto sta nel reinventarsi e sorprendere il pubblico. Però il punto è sempre il tempo: è una bella prova…
*Flashforward*
Ore 22:15
I boschi di braccia tese con lo smartphone sono spariti da un pezzo. Al loro posto c’è una folla che si dimena e che aveva un gran bisogno di qualcuno che le facesse dimenticare per un paio d’ore il riquadro illuminato di un display. Salmo dal vivo è un fiume in piena: i pezzi si susseguono a un ritmo allucinante, una serie di schiaffi in faccia a cui non puoi certo reagire con l’immobilità, al massimo con un feroce singalong. Ripenso all’intervista e al divanetto rosso di pelle del camerino: in fondo è tutta una questione di tempo, no? Di saper stare sul pezzo. Chi si ferma è perduto, questo è il vero inferno, e chi divide le masse come Russell Crowe di fermarsi, credetemi, non ne vuole proprio sapere.