INTERVISTA – Addio Proust! – Il punk rock, le ossessioni e il tempo perduto.


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di Alessandra Virginia Rossi

In una fotografia del 1891 Marcel Proust, ritratto in compagnia di un’allegra comitiva, imbraccia una racchetta da tennis a mo’ di chitarra. Un secolo dopo, nella mia classe di Letteratura Francese io osservavo l’immagine e vedevo in lui un pioniere dell’air guitar. Immaginavo fossi l’unica. Oggi scopro che non mi sbagliavo. C’è sempre stato del punk rock in Proust. Mattia Gonnelli, Marco Santi e Martina Vincenzoni, o meglio, i fiorentini Addio Proust!, lo dimostrano. Formatasi nel 2015 in occasione di “Arezzo Wave”, Addio Proust! è fra le migliori band italiane dell’anno. Conferma ulteriore arriva l’anno successivo  con “Io non ho mai perso il controllo”, uscito per l’Etichetta Red Cat Records e prodotto da Guido Melis (nei Diaframma di Federico Fiumani dal 1994 al 1997). Un disco crudo e diretto, figlio dell’ascolto dei Verdena, loro band preferita, ma soprattutto di un’esigenza espressiva prorompente che non conosce autocompiacimento ma solo un suono grezzo e un messaggio che arrivi dritto a destinazione. Un disco che prende allo stomaco e dunque parla di fame e dell’aver fame. Fame di fare e fare bene. Questa band coraggiosa approda al primo disco dopo un passato fatto di qualche delusione ma, come insegna il grande scrittore, nessun tempo va mai perduto se se ne fa un minuzioso, sebbene faticoso, recupero per metterlo a frutto. Un tempo che, quando si suona, è sospeso ed è proprio lì che il suo senso viene ritrovato. Ecco la nostra chiacchierata.

Cominciamo dal principio. “Addio Proust!”. Un nome di grandissimo impatto che mi ha fatto notare il vostro progetto. Cosa ci fa Proust nella vostra band?

Mattia: L’ingresso di Proust nella band è stato provvidenziale. Tutti e tre venivamo dalla delusione per la conclusione dei nostri precedenti progetti musicali; sciogliere una band infatti, almeno per quanto mi riguarda, è qualcosa di perturbante perché vedi sgretolarsi in un attimo anni di lavoro, progetti e fatiche condivise. Tutto ciò aveva provocato in noi profonda amarezza, ma anche una gran voglia di ricominciare con nuove idee.

Credo di aver letto “Addio Proust” su un muro mentre guidavo. Quando l’ho proposto ai ragazzi ci è sembrato subito azzeccato per la band e per quello che stavamo passando. Abbiamo identificato Proust con il tempo perduto, con le occasioni sprecate, con tutti i progetti e aspettative che non si erano realizzati. Dire addio a tutto ciò, oltre a essere un invito a non guardarsi indietro, ci è sembrato un atto liberatorio e purificante, uno stimolo per il futuro. Sostanzialmente Proust è la mano che ci ha aperto una nuova porta e che ci ha fatto segno di entrare. Siamo molto legati a questo nome.

Generalmente un gruppo così giovane dimostra uno stile acerbo e una strada ancora poco definita. La vostra voce, invece, è decisa, spicca fra molte e ha un obiettivo chiaro. Qual è la vostra strada?

Mattia: La strada che abbiamo scelto per questo lavoro è l’essenzialità. Essenzialità nella strumentazione, nei testi, nei suoni e negli arrangiamenti. Ogni elemento, centellinato e calibrato con il contagocce, ha l’obbiettivo di arrivare allo stomaco degli ascoltatori nel modo più diretto e chiaro possibile. Questa crudezza a volte può essere fraintesa e scambiata per aridità, povertà espressiva. Ma, come hai notato tu, tale semplicità espressiva è in funzione del messaggio e della comunicazione che abbiamo scelto, chiara e diretta.

“Io non ho mai perso il controllo”. Eppure il disco, che inizia apparentemente con toni pacati, perde spesso e volentieri il controllo. Lo fa consapevolmente, per sorprendere le aspettative di chi ascolta. Su tutti, il brano Ascessi che urla proprio “Non mi trattengo più”. Perdere il controllo è un atto di coraggio in una società che obbliga a mostrarsi sempre forti e pronti, dunque maniaci del controllo, soprattutto a discapito delle fragilità. Voi che ne pensate?

Marco: C’è una sensazione apparentemente contraddittoria che contraddistingue questa epoca di estesa possibilità di esprimersi, di informazioni e di connessioni incessanti: quella di una cravatta stretta attorno al collo che blocca il respiro e il pensiero. Sembra che, dopotutto, l’urgenza di perdere il controllo erutti come magma nonostante, all’apparenza, le faglie siano tutte aperte.

C’è una tradizione di band che hanno preferito esordire in inglese per poi passare all’italiano. Oggi la scena alternativa italiana è molto ricca e incoraggia le band all’uso della nostra lingua, ma è comunque una scelta coraggiosa. Chi scrive tra voi e qual è il vostro rapporto con la scrittura in italiano?

Marco:Scrivere in inglese non è mai stata un’opzione: l’italiano è la lingua dei nostri pensieri e anche se la prima ha un’adattabilità naturale al rock, certe sfumature e suggestioni non possono che passare per la seconda.

Mattia:L’italiano è da sempre, per me, la scelta più naturale. Finora non ho mai pensato alla possibilità di scrivere in inglese perché amo molto la mia lingua, la sua ricchezza espressiva e la sua possibilità di sfumature. Forse, prima dell’inglese, mi dirotterei verso l’offerta proposta dai dialetti regionali. Molti gruppi e artisti negli ultimi anni stanno infatti tornando alla scelta espressiva del dialetto per la scrittura dei testi, con risultati, a mio avviso, tra i più interessanti della scena musicale attuale. Primo esempio tra tutti, anche se è un veterano in questo senso, Cesare Basile con il dialetto siciliano.

Scrivere in italiano è difficile perché l’ascoltatore ovviamente comprende meglio quello che si canta e, rispetto alla nebulosità di un inglese cantato da un italiano, non c’è scampo; quindi trovare qualcosa di efficace e originale è il vero problema; che diventa, però, uno stimolo più che un limite.

Veniamo a qualche domanda sui testi. Questo è un disco sulla fame e sull’avere fame. Sento versi come “Che cosa c’è qui per me? Qual è il mio posto” e “Ti prego accoglimi, vedi sono qua”. Fa pensare a una fame affettiva, di risposte e di approvazione che spesso purtroppo ha conseguenze dirette sul modo di nutrirsi. È di questo che si parla?

Martina: Le metafore a tema “nutrizione” effettivamente sono tante, e avevamo messo in conto che qualcuno pensasse a un legame diretto con questi temi; personalmente lego il concetto di fame a due aspetti: il primo è quello rappresentato dalla parola viscerale. È un disco dove le emozioni sono “scarnificate e ridotte all’osso”, come ha scritto Mattia da qualche parte. Quindi un disco che presuppone un lungo metabolismo di ogni sua parte. Inoltre, è una fame di fare, di suonare, di ottenere, in ambito musicale, quanto finora ci siamo solo concessi, di lasciar correre facendo prevalere gli sguardi all’indietro.

Guido Melis, che vi ha prodotto il disco, ha una storia musicale importante alle spalle. Com’è stato lavorare con lui? E, domanda consequenziale, quali sono i vostri eroi musicali?

Marco: Il lavoro in studio ci ha dato, grazie a Guido, una spinta al miglioramento, altrimenti impensabile, nella ricerca della massima professionalità e nella maggior caparbietà nel portare avanti le nostre idee. È stato ed è un punto di riferimento fondamentale nel nostro percorso musicale. Lavorare con lui è stato, per certi aspetti, duro per entrambe le parti, ma di sicuro molto soddisfacente. Personalmente non ho eroi musicali, a parte i gruppi di riferimento dell’adolescenza che ti segnano con le unghie il cuore e le orecchie e non si possono più staccare.

Martina:I miei eroi musicali sono coloro che sono riusciti a sopravvivere come musicisti, a farne un mestiere, senza rinnegare se stessi all’interno del mondo musicale degli ultimi anni; penso a gruppi indipendenti che sono riusciti a farsi strada, ma anche a singoli musicisti bravissimi e magari un po’ fuori dalle scene. Personalmente il mio eroe è anche il mio maestro Daniele Trambusti, grandissimo musicista e persona chiave della mia crescita musicale e personale.

Mattia: Tra i miei eroi musicali sul podio metterei sicuramente Lou Reed e Bob Dylan, seguiti subito dopo da Guido Melis.

Sulle note della domanda precedente, con chi vi piacerebbe collaborare in futuro o anche idealmente?

Martina: Mi ha affascinato molto l’aspetto collaborativo che questo disco ha compreso, coinvolgendo altri musicisti che gravitano nel nostro stesso ambiente; ci auguriamo che possa continuare così, attraverso incontri e scambi, con persone sulla nostra stessa strada, o magari qualche passo avanti a noi. Se poi si tratta di sognare, non mi dispiacerebbe aprire il concerto di uno dei nostri gruppi di riferimento, i Verdena, o anche di bravissimi gruppi Indie come i Fask o i Gazebo Penguins.

Mattia: Visto che l’ho citato precedentemente mi piacerebbe collaborare con Cesare Basile, che tra l’altro ho scoperto essere di Misterbianco, un paesino nei pressi di Catania, dove mi capita spesso di andare durante l’anno.

Una cosa che ho apprezzato molto della vostra storia come band, sebbene ancora giovanissima, è la partecipazione all’”Arezzo Wave”. Che esperienza è stata?

Martina: “Arezzo Wave” è stato un passaggio importante in tutte e due le edizioni in cui abbiamo partecipato. La prima è stata l’occasione per dare una definizione più chiara, sotto forma di band, a un progetto che in quel momento vedeva me e Mattia arrangiare in acustico brani che lui aveva scritto in precedenza; dover partecipare alle selezioni live ha dato una spinta propulsiva a quella che poi sarebbe stata la forma presa dalla band. Della seconda edizione mi piace ricordare soprattutto i sinceri complimenti che ci sono arrivati dopo le selezioni live da parte dell’organizzazione: ci hanno scritto una mail nella quale si evinceva la comprensione profonda per il senso di quello che tentavamo di fare e ci è servito da incoraggiamento. Quest’anno speriamo di partecipare di nuovo.

La scena indipendente italiana, negli ultimi anni, è sempre più sotto i riflettori. Cosa pensate di questa definizione che, per qualcuno, ha il difetto di raggruppare in un unico insieme tanti progetti artistici in realtà molto diversi fra loro?

Mattia: Seguo la scena italiana e noto che in questi anni si sono susseguiti molti progetti interessanti, ma anche alcuni superficiali e banali, dal mio punto di vista. Generalmente non mi piace affatto la tendenza di molti cantautori e progetti a essere ostinatamente critici e “scomodi”. Non che abbia nulla in contrario con l’essere scomodo o politicamente scorretto, quanto con il farlo in modo scontato. Il rischio è sempre quello di cadere nell’omologazione, in una ingabbiante povertà di concetti. Trovo personalmente più aride e superficiali questo genere di proposte, piuttosto che il termine “indie italiano”, che non può far altro che racchiuderci un po’ tutti nella nostra irriducibile varietà.

La vostra formazione è essenziale ed efficace: chitarra/voce, basso e batteria. In alcuni brani come Pesci e Film, però, ci sono belle linee melodiche d’archi e qualche incursione del piano. Chi ha partecipato al progetto oltre a voi?

Martina: Nel disco ci sono degli ospiti che non finiremo mai di ringraziare abbastanza per il contributo che hanno apportato: Giulia Nuti, eccezionale violista; Orlando Cialli, tastierista dei Finister, e di nuovo Guido, che ha partecipato anche con cori e percussioni. Abbiamo dovuto lavorare sodo per rendere efficaci dal vivo, in tre, i brani dove loro avevano dato un tale contributo!

Mi piace anche menzionare chi ha lavorato a latere, ma nemmeno troppo: Enrico Guerrini, che ha fornito gli splendidi disegni; Francesca Sandroni, che si è occupata della grafica, e Martina Gonnelli, che ha fatto la fotografia poi rielaborata per il libretto.

Qual è la cosa che più vi affascina del fare musica? E, infine, dateci un consiglio musicale.

Mattia: La cosa che più mi affascina del fare musica è avere l’illusione, o la presunzione, di mettere a tacere per un attimo tutti i tormenti e tutti i demoni interiori che ci abitano. Mi affascina anche la collaborazione e la sinergia che si instaura con i compagni di viaggio. Si avverte un intenso, sebbene momentaneo, contatto, un’empatia, ci si sente vicini e realmente partecipi. Ma è una sensazione che, una volta spenti gli amplificatori, svanisce, ed è difficile ristabilire poi quel contatto nella vita di tutti i giorni.

Visto che “Io non ho mai perso il controllo” è anche un disco popolato da animali, suggerirei il disco “Tamer Animals” degli Other Lives, un disco pubblicato nel 2011, che tradotto vuol dire: “Domatore di animali”.

Marco: Suonare, suonare, suonare: live, componendo in studio, per divertimento in camera propria, ovunque sia possibile. Consiglio un vecchio album sicuramente già conosciuto da molti amanti del Progressive anni ‘70 come me, ma che merita un riscoperta: “You” dei Gong.

Martina: Mi affascina il fatto che suonare mi rende veramente autentica: è l’unica attività in cui sento scorrere, in parallelo, i pensieri e le emozioni, dove razionalità e sentimento non confliggono ma, anzi, rappresentano quello che davvero sono e che, senza note, fatico io stessa a far emergere.

Suggerisco una demo del mio amico romano Emanuele Ippopotami, frontman dei Nessuno: The nobodies – Tre.

“Provavo un senso di stanchezza o di spavento a sentire che tutto quel tempo, così a lungo, non solo era stato, senza una sola interruzione, vissuto, pensato, secreto da me, non solo era la mia vita, non solo era me stesso, ma anche che dovevo tenerlo ogni minuto attaccato a me, che mi faceva da sostegno.”

Marcel Proust, Alla Ricerca del Tempo Perduto. Il Tempo Ritrovato.

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