L’arte dei miscugli – Judge the album by its cover!


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di Alessandra Virginia Rossi

Sebbene non si debba mai giudicare troppo in fretta, ammettiamolo, è bellissimo gustare un album già dalla copertina. A rendere un artwork prezioso, talvolta sono veri e propri artisti chiamati a regalare (si fa per dire) le loro opere a una band, poi al mondo e qualche volta, chissà, alla storia. Nel 2003 i Blur riescono a convincere l’enigmatico Banksy a fare un’eccezione alla sua tendenza a non pubblicizzare nulla. Ne nasce la copertina del loro settimo album “Think Tank” e cominciano a spuntare elmetti da immersione in vari angoli di Londra. L’energia della street art è un’ottima promozione per chi vuole far arrivare al pubblico l’energia del proprio disco. Per questo gli Smashing Pumpkins scelgono Obey per “Zeitgeist” e Chris Brown si fa ritrarre da Ron English per “F.A.M.E.”.


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Ricorrere agli artisti non è certo una novità dei nostri tempi. A questo proposito viene in mente solo un nome: Andy Warhol. C’è forse qualcosa da aggiungere? Oltre a creare la banana più famosa del rock n’ roll, però, la Pop Art ha vestito molti altri vinili di tutto rispetto. Keith Haring presta la sua arte a David Bowie, per il singolo Without You da “Let’s Dance”, e a Malcolm McLaren, il guru del punk made in UK, nel suo progetto hip hop “Duck Rock” (che con Buffalo Gals ha ispirato anche Eminem in Without me).


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Anche Basquiat lavora per la cultura hip hop realizzando la copertina di “Beat Bop” di Rammellzee + K-Rob, così come Roy Lichtenstein presta le sue donne cartoon a Bobby O e Robert Rauschenberg il suo astrattismo ai Talking Heads.


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Il mondo dell’arte contemporanea ha una passione per il pop e non lo nasconde. Damien Hirst, provocatorio artista britannico, ha curato più di una copertina per Joe Strummer & The Mescaleros, The Hours, Babyshambles, RHCP e anche quella per un suo bizzarro progetto musicale che prevede il viso di Kate Moss dissezionato in copertina e un vinile inascoltabile in edizione limitata. Jeff Koons, suo collega e amico, è invece citato in qualunque articolo si occupi di album covers iconiche per quello che secondo molti sarebbe un odierno capolavoro del genere: la copertina di “Artpop”. Una Lady Gaga statuaria nasce dai frammenti di due opere leggendarie La nascita di Venere di Sandro Botticelli e Apollo e Dafne del Bernini. Un accostamento un po’ kitsch talvolta, ma quella di associare opere classiche al pop rock moderno è una mossa vincente. Lo dimostra “Power, corruption & lies” dei New Order che pesca la sua romantica copertina nel 1890 da Henri Fantin-Latour pittore realista, autore di A basket of Roses.La storia dell’arte ispira i musicisti e sembra completare il loro discorso artistico. John Squire, chitarrista degli Stone Roses, compie un chiaro tributo a Pollock ideando la copertina del loro album di debutto.


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Jack e Meg White sono per anni un tributo vivente alla corrente artistica De Stijl e in tema Futurista i New Order, prima di tuffarsi nel XVII secolo, si ispirano ai manifesti di Fortunato Depero per l’album “Movement”. Reinterpretare le opere d’arte è divertente oltre che stimolante. Ne sanno qualcosa i Pogues con “Rum, sodemy and the lash” che fanno una parodia de La zattera della Medusa di Géricault, Bowie e Iggy Pop che a Berlino scoprono la corrente pittorica espressionista Die Brücke e ci regalano le immortali copertine di “Heroes” e “The Idiot” ispirate al ritratto Roquairol di Erich Heckel, infine i Bow Wow Wow che reinterpretano Déjeneur sur l’herbe di Manet passando qualche guaio legale a causa del nudo della cantante Annabella Lwin allora solo quattordicenne. E la bellissima copertina di “Lungs” di Florence + the machine? Un tributo a Frida Kahlo che dipingeva il suo cuore in vista come i polmoni indossati da Florence Welch. Fu proprio dopo averne visto il manifesto per tutti i corridoi della metropolitana di Londra che comprai quel disco nel 2009. Quella copertina dai toni accesi ma oscuri, barocca e punk mi ha invitata a seguirla come Alice ha seguito il coniglio.


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Un disco è un oggetto artistico godibile in tutte le sue forme. Coinvolge quasi tutti i sensi, si porta dietro grandi storie ed è il mezzo più concreto per essere in intimo contatto con un artista. Per non lasciarlo mai più. Questo in fondo è stato l’intento di David Bowie nel lasciarci “Blackstar”. Così vivo e interattivo, così nero ma pieno di luci nascoste e ancora tutto da scoprire.


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