Duecartellespazinclusi (Il taccuino di A.Z.) – Una giornata come tante


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di A.Z.
La mano strinse con forza quel poco di terra che era riuscita a strappare al terreno. Fili d’erba, piccole radici, terra mista ad acqua. Pioggia, come sempre. Lenta e abbondante. Come quel momento, lento, infinito, pieno di tutto. La terra ridotta a poltiglia trovava un varco negli spazi tra un dito e l’altro. La mano stringeva talmente forte che le vene andavano in sofferenza. Intorno a lei, solo qualche bisbiglio di chi aveva fretta di andare, di chi aveva compiuto il suo lavoro e non c’era null’altro da dire. Lei non se ne curava affatto, rimaneva lì con la sua poltiglia in mano. Non era lì per piangere, non era lì per un motivo particolare. Era lì, perché in qualche modo era l’unico posto in cui sarebbe dovuta essere in quel momento. Aveva letto la notizia in un trafiletto qualche giorno prima. La notizia era di quelle scritte tanto per riempire uno spazio. Le pagine importanti erano occupate dalla cronaca nera del momento, la scomparsa di alcune donne. E proprio quel giorno il cadavere di una di quelle era stato ritrovato. Ma ormai era nauseata da quei fatti, ne parlavano a casa, per strada, a lavoro. Anche se all’inizio ne era rimasta turbata, adesso non ne voleva sapere più niente di donne scomparse e potenziali serial killer. Perciò aveva deciso di dare uno sguardo a quelle poche righe nascoste tra foto e titoli ad effetto. Lì per lì non ci aveva nemmeno pensato. Sì, il nome le aveva ricordato qualcosa, ma il cognome era uno dei tanti. Uno dei tanti reduci che, per un motivo o per un altro, finivano ammazzati.

Le capitava spesso di leggere di quei ragazzi che si portavano dietro le cicatrici delle loro esperienze, e che poi, tra una cosa e l’altra, finivano per non riuscire a fare a meno della violenza. Un regolamento di conti, scriveva il cronista. Quelle poche righe sul giornale che sfogliava ogni giorno mentre tornava da lavoro l’avrebbero lasciata indifferente, se non fosse stato per un qualcosa che da dentro la metteva a disagio. Se ne era comunque tornata a casa e, come sempre, erano lì ad attenderla le faccende domestiche, i figli, la sua vita. Fu il giorno dopo che, andando a lavoro con la sensazione di qualcosa che le sfuggiva, le venne in mente. Ne aveva conosciuti di uomini con quel nome, il cognome ancora non le diceva nulla. Il paese di origine però, appena citato nelle ultime righe dell’articoletto, riaffiorò da qualche antro dei suoi ricordi togliendole il disagio che si portava dietro. Non c’era mai stata, ma una volta un ragazzo con quel nome le aveva detto che veniva da lì. Fissando davanti a sé, in un istante si rivide seduta sullo stesso autobus anni prima. Ma era un’altra vita. Ripensò a quel ragazzo. L’ultima volta che lo aveva visto, avevano fatto l’amore.

Non ne sapeva molto di quel ragazzo, neanche il cognome. Ma era stata attratta da lui, così come era certa di non essergli stata indifferente. In quei mesi non c’era stato bisogno di conoscersi o di dirsi le cose, vivevano giorno per giorno, ed erano certi che l’avrebbero cambiato il mondo. Fece un sorriso, il mondo nessuno lo aveva cambiato, o meglio, nessuno lo aveva cambiato in meglio. Poi ripensò al tempo trascorso tra l’ultima volta che vide il ragazzo e l’inizio della sua vita così come la viveva ora. Non trovò niente di preciso nei suoi ricordi, solo un limbo confuso di sensazioni, passioni, ideali, ritorno alla vita reale. Le cose erano andate come dovevano andare, né più né meno. Assorta nelle sue riflessioni, la donna aveva dimenticato di scendere alla sua fermata. Si ritrovò al capolinea, l’autista la richiamò più volte. Alla fine scese, decise che quel giorno il lavoro non aveva bisogno di lei. Voleva saperne di più di quel ragazzo. Domandò qua e là, perfino a un poliziotto. Non fu in grado di scoprire nulla di più di quanto non avesse già letto su quello che era accaduto. Le sole informazioni utili che riuscì a ottenere furono la data e il luogo di sepoltura. Un paio di giorni dopo decise che ancora una volta non sarebbe andata al lavoro. Ed eccola lì, con un pugno di fango in mano, a leggere il nome e il cognome di un morto su una lapide. Le voci intorno a lei si fecero sempre più rade, il sole cominciava a calare. Forse si stava facendo tardi. Si rialzò, gettò via il pugno di terra, si pulì la mano sulla gonna. Si rese conto che accanto a lei un uomo fissava la tomba, immobile, in silenzio. Era convinta di essere sola, quasi sussultò.

Incrociò il suo sguardo solo per un attimo, ebbe la sensazione di averlo già visto. Preferì andarsene. Decise di tornare a casa a piedi. Arrivò sull’uscio. Anche il suo vicino stava rincasando. La salutò. Lei fece un cenno quasi indifferente. Non le piaceva il modo in cui quell’uomo la fissava. Rientrò. Sentì la voce del marito, Anche oggi hai fatto tardi a lavoro, spero tutto bene. Tutto bene, rispose, sono solo tornata a piedi, una giornata come tante.