di Gabriele Naddeo
Quando ascoltai per la prima volta “Nevermind” dei Nirvana puzzavo ancora abbondantemente di adolescenza. Ora, parlare di adolescenza senza cercare di cadere nel ridicolo è un’impresa che non avrebbe davvero alcun senso, dal momento che uno dei suoi aspetti più significativi è quel suo essere così fottutamente ridicola. Ridicola, proprio come l’aggettivo ‘fottutamente’. Meravigliosa e ridicola, complicata e ridicola, banale, presuntuosa, dolceamara, ridicola. Succede più o meno la stessa cosa quando si comincia a parlare dei Nirvana: sei lì che cerchi di costruire un discorso sensato, addirittura originale, su uno dei gruppi più importanti e influenti della storia della musica moderna e, quasi senza rendertene conto, cadi nelle grinfie del commento scontato. Perciò, messe le dovute mani avanti, posso accostare più o meno senza vergogna i termini ‘fottutamente’ e ‘bello’ in relazione a un disco che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni. O recensioni. “Nevermind”, come l’adolescenza, è tutto un cortocircuito: le melodie pop schiaffeggiate dalla voce di Kurt Cobain e dal grunge; l’uomo che in Lithium si aggrappa alla religione dopo la morte della ragazza e il ‘God is gay!’ a chiudere Stay Away; le urla incazzate e la versione sgolata e paranoica di Territorial Pissing; Polly, la storia di una quattordicenne rapita e stuprata, raccontata dalla prospettiva del criminale.
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